Di grande formato, sulla sovracoperta un volto a tutta pagina benché abbuiato dalla massa di capelli sconvolti, il volume si intitola Pier Paolo Pasolini e consiste in un centinaio di immagini fotografiche in biancoenero mentre il colophon si limita a riportare un «1975» evidentemente predatato, e di almeno un paio di mesi, dall’Editrice Magma di Roma. Le foto, che il tempo ha rese celeberrime, per lo più risalgono all’ottobre precedente e ritraggono il poeta in un duplice set, tra Sabaudia, dove si aggira in solitudine nel silenzio costernato, metafisico, dei marmi fascisti, e la Torre di Chia in cui, non meno solo, è invece alle prese con i dattiloscritti di Lettere luterane o il profilo disegnato a carboncino del suo maestro Roberto Longhi: vi sono naturalmente omesse le foto di Pasolini nudo (pubblicate postume, decenni dopo) originariamente destinate a integrare, come un crisma autobiografico e un’ostensione sacrificale, il palinsesto di Petrolio.
Chi ha scattato quelle foto che il tempo ripropone alla stregua di un suggello ossessivo, è un autodidatta che ha da poco esordito ritraendo Man Ray e Andy Warhol ed è un ragazzo di appena venticinque anni, Dino Pedriali, che confesserà in un’intervista televisiva rilasciata nel 2014 a Franca Leosini per Storie maledette: «Mi disse che aveva deciso di fare un’opera scandalosa e che voleva andare fino in fondo… il corpo rappresentava per Pasolini qualcosa di assoluto… è terribile la solitudine che ho visto in quell’uomo…».
È la stessa solitudine che ha segnato la vicenda artistica e umana di Pedriali, mancato lo scorso 11 novembre a Roma in una clinica di Montespaccato. Carattere difficile, ombroso, Pedriali è un ritrattista di volti e di corpi, il suo sguardo è naturaliter ad altezza d’uomo mentre un netto luce/ombra scandisce linee e tagli disegnando le fisionomie. Ma qui non è tanto questione di caravaggismo come pure è stato detto (Peter Weiermair parlò a suo tempo di una vera e propria «estetica della luce»), quanto di nativa attenzione alla natura solida dei corpi, al loro esserci in terza dimensione o insomma a una ponderalità trascendentale delle cose e degli esseri umani: tale è il punto di tangenza (e fortissimo) con l’universo di Pasolini laddove, semmai, andrebbe fatto il nome di Masaccio con la predilezione per le superfici a sbalzo, per le tensioni muscolari del corpo nudo, specialmente per i segni che intacchino dei volti adusti e camusi.
Pedriali porta volentieri la maschera dell’autodidatta e dissimula i riferimenti nello stesso momento in cui dà l’impressione di volerli esibire, ma va sempre ricordato, ed è il fatto essenziale della sua poetica, che per lui la borghesia non esiste ovvero non esiste il ceto universale e omologato dei consumatori e dei sudditi della società affluente, ciò che nelle Lettere luterane viene detto l’esito di una rivoluzione antropologica e battezzato l’Universo Orrendo tout court: degni di essere ritratti, dunque, sono soltanto i corpi dei sottoproletari o, all’opposto, i volti dei grandi artisti e intellettuali isolati.
Quanto a ciò, fra le poche pubblicazioni disponibili, documento prezioso è il catalogo complessivo dei Nudi e ritratti. Fotografie 1974-2003 (a cura di Peter Weiermair, Skira 2004) che si apre con una galleria di affinità elettive, non soltanto Man Ray che maneggia la macchina fotografica o Warhol mentre dorme con occhiali e papalina ma anche, fra gli altri, un Henry Miller che con disinvoltura ostenta le sue rughe e, siamo già agli anni ottanta, un ascetico Rudolf Nureyev, un mestissimo Alberto Moravia, un pensoso corrucciato Achille Bonito Oliva 1988 nonché, e sembra quasi uno scatto rubato, un Federico Zeri dell’anno precedente, preso di profilo mentre sta valicando la sua linea d’ombra al cospetto di un busto marmoreo. Solo per eccezione viceversa (e nel caso si tratta di imberbi) il volto dei sottoproletari emerge in piena luce, perché stavolta il corpo tiene il campo nella più arresa e sfacciata nudità: qui l’ombra si fa nera e la luce rimbeve sulla pelle inquadrata volentieri per frammenti, nei muscoli dorsali, nei tèndini tesi, nei sessi esibiti con impudicizia.
Circa il nudo di Pasolini, ideale connettivo tra le due serie, Pedriali aveva scelto il distanziamento entrando a sua volta nel buio oltre la vetrata della Torre di Chia e ritraendo un corpo ancora asciutto, vigoroso, nei modi pressoché stilizzati che (sul Corriere della sera del 22 ottobre 1992) così descriverà Enzo Siciliano: «Negli scatti pare notte dall’esterno, dentro la stanza c’è una luce cruda, elettrica. In quella luce, una muscolatura da calciatore, il corpo asciutto, semisdraiato sulla coperta bianca del letto o in piedi vicino al cassettone. (…) Nella sua fisicità non c’è scandalo. Assorbito nella lettura, mostra indifferenza, una forma di pudicizia sostanziale che sventa qualsiasi illazione».
Divenuto poi il tema di un racconto di Walter Siti (ne La magnifica merce, Einaudi 2004), il Pasolini terminale di Pedriali è, per stare ai fotografi italiani, comunque lontano anni luce sia da quello anni sessanta, ieratico e ligneo, di Sandro Becchetti, sia da quello affettuoso e persino fraterno di Mario Dondero se, giusto introducendo di quest’ultimo gli Scatti per Pasolini (5 Continents, 2005), Federico De Melis poteva rinvenire a contrasto la fisionomia di Pedriali: «La relazione tra Pasolini e il suo fotografo non sembra complice ma straniata, drammatica ma in un modo freddo e mentale, ciò che corrisponde all’ultima stagione pasoliniana, alla crudele impaginazione déco dei misfatti sessuali di Salò-Sade».
Nel trentennale dell’assassinio di Pasolini, proprio alla inaugurazione della mostra di Mario Dondero, il 1° aprile del 2005 Pedriali si precipitò, inatteso, al Centro Cultura «Pergoli» di Falconara Marittima e ovviamente gli fu data la parola. Parlando senza alzare gli occhi, teso e vibrante, rese omaggio a Dondero ma rivendicò l’unicità, la solitudine assoluta del suo Pasolini resa astrale, aggiungeva, dalla singolare scalfitura, come una piccola ferita, che si vede sulla fronte del poeta in primissimo piano nella primitiva stampa della foto più carismatica del libro; e infatti nella dedica che appose al volume 1975 di chi adesso sta scrivendo c’è scritto, in una grafia così lineare da sembrare ingenua: come caino/ che colpisce/ abele,/ il negativo/ di questo ritratto/ si è legato con/ il graffio delle/ pinzette dello sviluppo/ diventando/ il segno di tutto/ questo libro.