Tassare le piattaforme affinché i loro profitti derivanti dalla raccolta e utilizzo dei dati degli utenti, possano essere redistribuiti. È una possibilità di cui si discute in Cina, all’interno di un settore, quello delle piattaforme, da tempo sotto osservazione e in continuo mutamento grazie a numerose leggi ed enti (come l’antitrust) che stanno prendendo corpo.

QUESTO CONFERMA quanto il comparto tech cinese sia un punto di osservazione rilevante per capire qualche aspetto dell’attuale situazione cinese: le norme, le azioni, le multe e una eventuale tassa sui dati, si legano infatti indissolubilmente alla riforma del settore operata dal Pcc e al concetto di «prosperità comune» (gongtong fuyu), la nuova guida delle politiche economiche, redistributive, lanciata da Xi Jinping il 17 agosto scorso.

Fino a poco tempo fa la Cina aveva permesso la crescita delle sue piattaforme senza creare regolamenti e leggi che ne complicassero l’ascesa; nell’ultimo anno, invece, complice la rinnovata strategia della prosperità comune, le prime lamentele da parte degli utenti nei confronti della raccolta e utilizzo dei dati da parte dei big cinesi e le preoccupazioni del Pcc che il potere delle varie Alibaba stesse crescendo causando problemi alla centralità del Partito nel controllare l’opinione pubblica hanno portato a una serie di iniziative volte a normare e ridefinire l’ambiente digitale cinese.

COME HA SOTTOLINEATO in un recente paper (China’s Emerging Data Protection Framework) Roger Creemers dell’Università Leiden e attento osservatore di quanto accade nella sfera virtuale cinese, «La legislazione e le regolamentazioni cinesi sono indissolubilmente legate al “quadro più ampio” (daju) del progetto che il Pcc si propone di realizzare. Nel complesso, l’obiettivo principale è portare la Cina in una posizione di ricchezza e forza (…). Nel 2014, Xi Jinping ha annunciato il tentativo di trasformare la Cina in una cyber potenza (wangluo daguo)».

IN QUESTO «QUADRO» spiccano la nuova legge sulla privacy ( Personal Information Protection Law) e la legge sulla sicurezza dei dati (Data Protection Law). Con la prima Pechino punta a regolamentare il rapporto tra aziende private e cittadini per quanto riguarda la raccolta dei dati (è molto simile alla Gdpr europea, pur senza porre enfasi sulla privacy come principio cardine); con la seconda, riprendendo le parole di Creemers, la Cina si cimenta in una «sfida che è diventata un elefante nella stanza dei politici occidentali: il fatto che le informazioni digitali siano diventate una fonte di rischio o minaccia per i cittadini e sicurezza pubblica in un modo che non poteva immaginarsi qualche anno fa. Con la Dsl la Cina si muove per prima. Forse commetterà degli errori, ma certamente sta fornendo risposte a domande che i governi occidentali non hanno voluto o potuto farsi».

In questa cornice si inserisce un’altra possibilità (oltre alla legge per regolamentare gli algoritmi) di cui si è discusso parecchio in Occidente senza fornire mai una soluzione: redistribuire pare dei profitti realizzati dalle piattaforme grazie ai nostri dati. Secondo Asia Nikkei la Cina potrebbe infatti proporre una tassa sui dati. La rivista giapponese ha ripreso alcune esternazioni dell’ex sindaco di Chongqing a fine ottobre durante una conferenza finanziaria: «Le piattaforme che possiedono grandi quantità di informazioni personali dovrebbero restituire dal 20% al 30% delle entrate generate dalle transazioni ai produttori di tali dati». I giganti cinesi, ha scritto Asia Nikkei, «hanno guadagnato enormi profitti» utilizzando i dati ed espandendo le loro attività». Per questo le osservazioni dell’ex sindaco di Chongqing, insieme al piano quinquennale sulle attività digitali, potrebbero portare a questa scelta. Di sicuro la Cina – in questo ambito – «è entrata in una nuova fase», ha concluso la rivista giapponese.