Tammy Faye è nata per lo showbusiness. Lo scopriamo quando è ancora bambina e – sotto gli occhi esterrefatto/imbarazzati di sua madre (Cherry Jones, davanti alla testiera, alle prese con gli inni) – elettrizza la platea di una chiesetta del Minnesota esplodendo in convulsioni di fervore religioso. La sua vocazione troverà sfogo non a Hollywood o su Broadway ma di fronte a un oceano di born again Christian. Se, nel 1960, formato nella tradizione carismatica, Pat Robertson, aveva gettato le basi per l’esplosione mediatica di massa della destra evangelica americana, con il suo Christian Broadcasting Network, ci sono voluti Jim Bakker e sua moglie Tammy Faye per coglierne e sfruttarne appieno la dimensione spettacolare – la religione come una vorticosa soap opera a base di peccati abissali e redenzioni estatiche, devozione matrimoniale e tradimenti, sullo sfondo di un impero economico da parecchi miliardi di dollari di cui facevano parte un villaggio residenziale e un parco a tema religiosi. Che, in un epilogo degno di un’apocalisse biblica, finirono travolti in un maelstrom di scandali sessuali e corruzione finanziaria, insieme alle star della soap.

IL PARTICOLARISSIMO misto di infantilismo (i riccioli biondi, gli occhi azzurri, la voce da bambina) e artificio (le esorbitanti ciglia finte, gli strati multipli di fondotinta e di rossetto), di innocenza ed erotismo, di istinto autentico e manipolazione che Tammy Faye portava in scena, uniti al suo naturale istinto istrionico, ebbero molto a che vedere con il successo straordinario della coppia – un duo da cui emanava un’aura carnale e giocosamente un po’ cialtrona, che faceva da antidoto al formato più standard di star dell’evangelismo da piccolo schermo (rigorosamente uomini, grigi e di tarda mezza età) come Robertson o Jerry Falwell -efficacissimi politicamente dietro alle quinte ma molto meno davanti alla telecamera.

QUELLA DOSE extra di terrena volgarità, e l’oggettiva stranezza tabloid della saga dei Bakker, avevano già dato origine, nel 2000, a un documentario di due specialisti di gotico americano, Fenton Bailey e Randy Barbato, The Eyes of Tammy Faye. Il nuovo film di Michael Schowalter che ha aperto la Festa del Cinema di Roma (regista del successo di Sundance The Big Sick) ne riprende il titolo e il focus sul personaggio di lei. Jessica Chastain, in un’interpretazione che evoca il fervore delle convulsioni religiose pentecostali e parecchi millimetri di make up prostetico che stravolgono il suo volto elegante in una maschera, è anche produttore di quest’operazione di recupero dall’epoca d’oro dello showbusiness religioso vagamente aggiornata in chiave femminista.

SPIRITO LIBERO quanto contradditorio, qui Tammy Faye è infatti almeno in parte animata, oltre che dalla vocazione esibizionista, da autentiche convinzioni cristiane, che la portano per esempio a simpatizzare con le vittime dell’Aids, in dissenso con l’ortodossia evangelica che ritraeva l’epidemia come il segno della collera divina contro l’omosessualità. Se Eyes of Tammy Faye non arriva a redimere completamente la sua eroina, sicuramente ce la presenta con delle attenuanti – vittima della madre, del marito (Andrew Garfield, anche lui con guance prostetiche), del sessismo dell’establishment religioso e della sua stessa ingenuità. È una normalizzazione che fa del film un oggetto molto meno interessante di quello che potrebbe essere. Specialmente alla luce del fatto che in una linea di discendenza diretta e surclassandoli anche con il make up, è arrivato Donald Trump.