Della sua vita, sia un’innata riservatezza o la fama arrivata così tardi, ancora sappiamo molto poco. Si direbbe del resto che poco ci sia da sapere di Edith Pearlman, tranne il fatto che è nata in New England nel 1936 ma è cresciuta a Providence, in Rhode Island: ha studiato materie letterarie al prestigioso Radcliffe College, la stessa università di Gertrude Stein. Certo non è irrilevante che il padre fosse un medico ebreo emigrato da Kiev, né che sia morto quando lei era solo una ragazzina; tantomeno che la madre, un’americana di origini polacche, le abbia trasmesso la passione per i libri. Potremmo aggiungere che per mantenersi ha fatto la programmatrice di computer e ha lavorato in una mensa per i poveri; che da tempo abita a Brookline, in Massachusetts, dove è stata eletta nel Town Meeting, una specie di consiglio comunale. Lei stessa ha raccontato che oltre a leggere le piace camminare e combinare matrimoni. Ha sottolineato che non risponde mai al telefono. Usa la macchina da scrivere e beve parecchie tazze di caffé.
I più curiosi saranno interessati a sapere che Pearlman è in realtà il cognome del marito, uno psichiatra da cui ha avuto due figli: la famiglia, lo ha dichiarato lei, è il successo di cui si sente più orgogliosa. Ci dicono davvero qualcosa di Edith Pearlman tutte queste informazioni? Traducono in una formula accessibile per noi la magia perlacea delle storie che questa straordinaria narratrice ci dischiude sotto gli occhi? Spiegano il sortilegio che avvolge la potenza luminosa della sua scrittura, anche la tenace oscurità in cui l’ha coltivata per quasi cinquant’anni? Conta forse di più uno strano aneddoto, in apparenza del tutto irrilevante, lasciato cadere mentre parlava del suo matrimonio in un’intervista di qualche anno fa. Il marito, ha confessato Pearlman, le propose un patto: se lei avesse accettato di occuparsi della casa e dei bambini lui avrebbe pensato a pagare le bollette. Significava che lei avrebbe potuto smettere di lavorare e sarebbe stata libera di scrivere per tutto il tempo che le fosse rimasto disponibile. Pearlman ha detto che di questo accordo non si è mai pentita perché l’ha salvata. E ha salvato i suoi libri con lei.
Quando si sposa ha trentun anni: è il 1967 e negli Stati Uniti si moltiplicano i gruppi legati al Movimento di liberazione della donna. Valerie Solanas pubblica il Manifesto per l’eliminazione dei maschi. Su una copertina di «Time» pillole anticoncezionali di ogni colore sono disposte a formare il simbolo del femminismo. Pearlman sceglie per sé il mestiere di casalinga, appena può scende in cantina, si accomoda accanto alla caldaia e si mette a scrivere. Una decisione a prima vista poco vantaggiosa, per l’epoca insensata, le ha permesso di diventare uno dei più grandi scrittori al mondo di racconti. Dal suo angolo quieto, così domestico e ristretto, si è esercitata a guardare la realtà usando un’attenzione cristallina, ha imparato a maneggiare con infallibile empatia una sensibilità esatta perché lenta, concentrata, silenziosa. Non è una che ha fretta Edith Pearlman: il primo racconto lo ha stampato nel 1969, sono dovuti passare quasi trent’anni perché uscisse Vaquita, il suo volume d’esordio. Da allora, era il 1996, di raccolte ne ha firmate solo quattro. La penultima, un’antologia di storie vecchie e nuove allusivamente intitolata Visione binoculare, nel 2011 l’ha resa nota. Per scrivere un racconto ha detto che le servono due mesi, in un anno non riesce ad averne pronti più di sei. Probabilmente non potrebbe scrivere un romanzo. È certo che non lo ha mai voluto.
«Il mio è un temperamento che rifugge dai progetti in grande scala. Preferisce piuttosto una storia piccola, su cui lavorare e poi lavorare ancora, in qualche caso con una lente di ingrandimento. Accolgo con piacere la sfida di comprimere un personaggio, uno scenario, un problema, perfino la sua soluzione, nel minor numero di parole possibili. Richiede uno sforzo intenso e prolungato essere brevi; io mi godo il paradosso». L’incanto prodotto dai racconti di Edith Pearlman consiste in realtà nella regale ampiezza con cui scenari e personaggi si dispiegano dentro la mente del lettore. Con il suo sguardo affilato di rapace la scrittrice afferra un dettaglio trascurabile e lo utilizza come una lama per aprirsi un varco attraverso il tessuto spesso del tempo, trasforma una distrazione o un inciampo in uno snodo decisivo del destino. Ogni storia finisce così per rivelare il tracciato intero di una vita, anche la sua temperatura e il suo clima: soprattutto la singolare inclinazione che in quella vita disegna lo sciogliersi o l’intrecciarsi dei legami. Più dei caratteri a Pearlman interessa la loro relazione: ciò che vuole indagare sono le possibili combinazioni dei rapporti, i bisogni segreti su cui crescono e i misteriosi aggiustamenti necessari a mantenerli. Accade anche nei venti racconti riuniti in Intima apparenza, titolo con cui Bompiani («Narratori Stranieri», traduzione di Angela Ruggeri, pp. 283, € 19,00) sostituisce il meno seducente, più domestico e allusivo Honeydew che l’autrice ha scelto per la sua ultima raccolta, apparsa in lingua originale due anni fa.
Cos’è la melata, questo significa honeydew, se non il liquido escremento che producono alcuni insetti e che altri insetti possono trasformare in miele? Un rifiuto dunque, uno scarto a cui il lavoro delle api conferisce apparenza attraente e sapore dolce, ma in sostanza nient’altro che uno scarto. Dalla porta socchiusa della sua cantina Pearlman osserva il flusso mutevole della vita cercando di raggiungere quella palpitante, corporea verità che oltre l’apparenza, oltre le illusorie trasformazioni, riposa inviolata nel cuore di ogni relazione. La pedicure e il professore, la studentessa anoressica e l’insegnante incinta, la tata di colore e il capofamiglia molto wasp, l’elegante direttrice di un albergo e la ragazza africana mutilata, l’anestesista e la paziente malata di tumore: collocati in molti casi su uno stesso scenario, l’immaginaria cittadina di Godolphin già vista negli altri suoi libri, i personaggi di Intima apparenza sono legati da ferite, mancanze, ossessioni che Pearlman scopre rovistando con attenzione calda ma ferma dietro l’ingannevole superficie delle cose. «La verità non ha niente a che fare con la testimonianza degli occhi», pensa il giovane protagonista di «Aspetta e vedrai» che parla anche per lei.
Narratrice della luce e dell’ombra, delle sfumature di colore e delle vibrazioni di tono, Edith Pearlman lavora con una lingua di artigianale precisione, mai tagliente benché implacabile e ferrea, esatta, risoluta; a tratti maestosa nella sua spoglia economia. Ellissi, pause, sottintesi imprimono alla pagina un ritmo rigoroso benché aereo. Questa raccolta – la seconda disponibile in italiano dopo Visione binoculare uscita sempre da Bompiani nel 2012 – avrebbe meritato una traduzione meno distratta nei confronti della sintassi («lei gli trascinò lo sgabello accanto a lui»); del lessico (può un taxi «srotolarsi»? una capigliatura «affiocare»? una persona «ondeggiare» un cappello?); del registro stilistico («sbuffare argento» è davvero identico a «emettere vapore argenteo»?) e perfino delle ragioni narrative (una congiunzione inesatta offusca nell’ultima sequenza insieme a un pronome espunto il senso del nodale «Piscatacqua»).
«Per me una storia è una conversazione tra lo scrittore e il lettore», ha detto Pearlman in un’intervista. La sua voce è così originale, così seducente e chiara che nessuna interferenza riuscirà per fortuna a impedirci di seguirla. Tendiamo l’orecchio ai suoi racconti e dalla nostra poltrona ci avventuriamo a compiere insieme a lei spericolati viaggi dentro il cuore stregato della realtà. Desideriamo soltanto che ancora continui a parlarci. Di ascoltarla non ci stancheremo mai.