Thomas Jeckyll è stato un architetto inglese tra i primi esponenti del cosiddetto Aesthetic Movement, che nella seconda metà dell’Ottocento si affermò in Inghilterra sfidando i valori e i canoni estetici della cultura vittoriana. Famoso per le eccentriche creazioni in metallo che inseriva nei suoi progetti decorativi, aveva uno stile fortemente influenzato dall’arte giapponese che, proprio in quegli anni, iniziava a essere di gran moda. Forse a causa della precoce malattia che lo portò a morire troppo giovane è ora poco noto, ma quello che resta della sua fama è per lo più legato a un’opera il cui tormentato percorso creativo fa sentire la sua eco ancora oggi: la Peacock Room.
Le turbolente vicende che ne hanno segnato la realizzazione sono caratteristiche degli anni della Gilded Age e, oltre a Jeckyll, hanno per protagonisti due grandi industriali e collezionisti d’arte, l’armatore inglese Frederick Richard Leyland e l’americano Charles Lang Freer ma, soprattutto, un artista d’oltre Oceano che visse e lavorò molto in Europa, James McNeill Whistler.
Nel 1878 Leyland aveva da poco acquistato una prestigiosa casa nell’elegante quartiere di South Kensington, al numero 49 di Princes Gate, all’angolo con Exhibition Road. Per ristrutturarla chiamò il noto architetto Richard Norman Shaw che, a sua volta, affidò il disegno della sala da pranzo proprio a Jeckyll: è questo l’inizio della storia della Peacock Room.
Jeckyll fece rivestire la stanza di cuoio e progettò per le pareti un’intricata struttura di mensole per accogliere la collezione di porcellane cinesi di Leyland alle quali la sala era dedicata, mentre sopra il camino era appeso un evocativo dipinto di Whistler: The Princess from the Land of Porcelain. Jeckyll iniziò presto a soffrire della malattia che l’avrebbe portato alla morte pochi anni dopo e fu costretto ad abbandonare il progetto che passò a Whistler il quale, nel frattempo, stava già decorando l’ingresso e le scale dell’abitazione.
L’artista americano, a cui era stato chiesto solo un consulto sui colori della stanza, mentre Leyland era lontano da Londra, la ridisegnò interamente usando blu vivaci e verde-oro iridescenti, modificando le cornici e la disposizione degli altri oggetti. Con la sua stravaganza, Whistler creò un capolavoro, ma Leyland non apprezzò il cambiamento e si rifiutò di pagare per intero la costosa commissione. Alimentato dalle loro personalità contrastanti, il caso venne diffuso sui tabloid della società londinese che li trasformò in grandi nemici.
Dopo che Leyland ebbe accettato di pagare almeno la metà di quanto dovuto, Whistler eseguì alcuni altri lavori nella stanza e, in particolare, sul muro di fronte al camino, dipinse due pavoni che si fronteggiavano su un terreno cosparso di scellini, destinati a rappresentare gli scontri con il suo committente, che intitolò Art and Money: or The Story of the Room.
Nel 1904, dopo la morte di Leyland, entra in scena il collezionista d’arte e industriale americano Charles Lang Freer, che acquista la stanza e la spedisce in America per decorare la casa di Detroit in cui già si trovava parte della sua grande raccolta di arte orientale, poi interamente donata allo Smithsonian Institute di Washinghton, stanza compresa. I personaggi di questa storia e le opere che hanno commissionato, prodotto, collezionato e infine donato hanno attraversato avanti e indietro l’Oceano proprio come i protagonisti della Gilded Age, non più del tutto americani e non ancora europei o viceversa, e la Peacock Room è ora uno dei principali capolavori della Freer Collection, testimone del gusto di un’epoca, delle sue aspirazioni e delle sue intime contraddizioni.
Proprio queste contraddizioni sono le protagoniste di Filthy Lucre: Whistler’s Peacock Room Reimagined, l’opera di Darren Waterston in mostra al Victoria and Albert Museum fino al 29 novembre 2020. L’artista americano re-immagina la Peacock Room, ma la presenta ormai attraversata dai suoi fantasmi; dopo più di un secolo le preziose porcellane sono in pezzi o deformate, così come le mensole, da cui colano stalattiti d’oro che terminano sul pavimento, la luce è fioca e un senso di disorientamento coglie lo spettatore.
Waterston rivisita la sala di Whistler quasi come se un investigatore andasse sulla scena di un delitto: il dramma si è svolto fuori dalla nostra vista e bisogna stabilire di cosa si tratti, cosa sia accaduto. I toni dei colori, le proporzioni e i materiali, ricordano perfettamente quelli di Whistler così che al primo impatto sembra ancora di entrare all’interno di una residenza vittoriana. La musica di sottofondo richiama frammenti del passato ed è parte integrante dell’opera, contribuendo a aumentare il senso di claustrofobia che si respira. I famosi pavoni dipinti da Whistler ormai non si fronteggiano soltanto, ma sono rappresentati in una vera e propria violenta lotta, ma anche di questo non ci si accorge subito. Tutto necessita di una sorta di adattamento. Appena entrati si ha l’illusione di appartenere, insieme agli arredi, al passato della stanza, poi, lentamente, ma con un profondo senso di smarrimento, ci si rende conto che ormai, irrimediabilmente, le cose non stanno più così.
L’oro della Gilded Age si è liquefatto ed è colato sul pavimento, le porcellane sono distrutte e i pavoni stanno strappandosi le viscere con il becco. La sala sembra un’immensa natura morta in decomposizione, una rappresentazione dell’abbondanza trasformata in spreco.
Ci si muove intorno stupefatti, cercando di comprendere cosa sia accaduto, ma non c’è più nulla da fare, quel tempo appare svanito per sempre. Irrecuperabile come il sogno di un’epoca a cui sembrano essere sopravvissuti solo fantasmi di cui ormai si è quasi persa la memoria, Jeckyll per primo, ma anche Whistler e Leyland, la cui vanitosa disputa nel cercare di dare un prezzo e non un valore all’arte ha lasciato solo macerie.
Anche Charles Lang Freer è ormai un fantasma e, come i tanti magnati americani dell’epoca che hanno acquistato un numero incredibile di opere d’arte per portarle nella propria abitazione d’oltre Oceano, ricorda Adam Verver, il protagonista de La Coppa d’Oro di Henry James, il prototipo di un nuovo personaggio che a breve diventerà uno stereotipo consolidato: il collezionista americano che fa razzia di opere d’arte grazie alla fortuna accumulata in poco tempo col suo sapiente fiuto degli affari.
Proprio come la coppa d’oro dell’omonimo romanzo jamesiano, oggetto meraviglioso, ma sottilmente imperfetto, la Peacock Room, simbolo dello sfarzo, della ricchezza e delle incoerenze dell’arte ha una crepa nascosta e l’installazione di Waterston ne mette in mostra crudelmente la rovina.