È «un colpo di Stato» (Romani), «uno schifo» (Santanchè), una «sentenza da tribunale speciale» (Cicchitto), «un atto eversivo che fa paura» (Brunetta), solo per citare a caso. Non importa chi parla: i toni, nel Pdl, sono tutti uguali. La gara, tutt’alpiù, è a chi raggiunge i decibel più alti. Il condananto aspetta sera per commentare e anche nel suo comunicato non c’è una parola che non sia del tutto prevedibile: «E’ stata emessa una snetenza di violenza mai vista per cercare di eliminarmi dalla vita politica di questo Paese. Ma io intendo resistere perché sono innocente e non intendo in alcun modo abbandonare la mia battaglia per fare dell’Italia un paese libero e giusto».
Identico discorso per quanto riguarda l’analisi politica. Non importa se il commentatore di turno voli con i falchi o con le colombe: nessuno nutre il pur minimo dubbio sul significato del fattaccio. E’ una manovra studiata nei minimi particolari per far fuori un leader politico considerato nemico giurato. Non è solo la sentenza, in fondo attesa, a infiammare oltre misura gli animi. Sono i particolari invece non previsti. E’ l’anno di condanna in più rispetto alle richieste del pm. E’ soprattutto la trasmissione degli atti con invito a procedere contro tutti i testimoni della difesa. C’è infine un terzo punto sul quale l’unanimità del Pdl è granitica: bisogna reagire. Lo dice un duro come Brunetta: «E’ il momento di dire basta». Lo pratica un mobido come Giuliano Ferrara: «Domani manifestazione a Roma contro la sentenza talebana. E con le olgettine».

Tutti d’accordo dunque? Nemmeno per sogno. Tutti dicono le stesse cose, ma per trarne conseguenze opposte. Per chi, come Cicchitto o Alfano e l’intera compagine governativa, proprio l’immensa portata della «provocazione» consiglia di prudenza. Cicchitto, a caldo, lo dice senza perifrasi: «La pacificazione è saltata», però non per colpa del governo. I magistrati sono entrati a gamba tesa proprio per far cadere il governo. «Non bisogna cadere nella trappola». Angelino Alfano si spinge oltre. Alza il telefono chiama il capo furioso, gli esprime la più sentita solidarietà, poi lo invita a «tenere duro», cioè a resistere e difendere «i valori in cui credono milioni di italiani». Ma anche a salvare il governo Letta.
Pareri discordi che mascherano una lacerazione molto più profonda di quanto non appaia ma che, in concreto, significano pochissimo. A decidere sarà Berlusconi, da solo. Un Berlusconi più che mai convinto, dopo l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, che la magistratura non si fermerà fino a che non lo avrà spazzato via dal palcoscenico politico. Un Berlusconi tanto deluso oggi dal gelo degli «alleati», dal «Le sentenze si rispettano» del Pd, dal no comment del governo, quanto lo era ieri dalla sentenza della Consulta che, a suo parere, dimostrava quanto poco si fosse speso a suo favore Giorgio Napolitano. Ma anche un Berlusconi spaventato dal rischio di dichiarare guerra per poi essere sconfitto e ritrovarsi senza più nessuno scudo. Impossibile prevedere oggi cosa deciderà nella sua furibonda solitudine. Ma la partita dell’Iva, già difficilissima, è da ieri sera una missione quasi impossibile.
Letta, che continua a ostentare ottimismo d’ordinanza, è ormai quasi certo di ottenere da saccomanni la sospensione per tre mesi. A quel punto la formula magica dovrebbe essere una «modulazione» dell’Iva tale da salvare i conti e insieme dare una mano al rilancio dell’economia avvantaggiando sia i consumi interni rispetto a quelli importati, sia quelli diffusi rispetto a quelli di lusso. Sul piano della propaganda, però, una manovra del genere sarebbe per Berlusconi di scarsa utilità e in più, quando in autunno la ghigliottina della Cassazione sarà sul punto di scattare, sarà facile rinviare comunque il voto di poche settimane, in modo da non dover più fare i conti con il candidato Berlusconi. Per questo la tentazione di non aspettare neppure l’autunno ad Arcore è da ieri fortissima.