Alla vigilia della direzione che formalizzerà le dimissioni di o Renzi, il Pd non ha un solo aspirante al rimpiazzo, ne ha già almeno due. Dopo il passo avanti del ministro Carlo Calenda, sotto la regia discreta del premier Gentiloni e dei ’padri nobili’ Veltroni e Prodi, a battere un colpo è Nicola Zingaretti, fresco di vittoria nel Lazio nello stesso giorno in cui il Pd alle politiche colava a picco (ha preso 341mila voti in più del suo partito). Nel corso di una lunga intervista a Repubblica ha detto un paio di frasi destinate a fare titolo nello sbando generale del Nazareno: «Io ci sarò. Anche alle primarie, non escludo nulla».

NON È LA PRIMA VOLTA che il presidente allude a un suo impegno diretto nel partito. Curriculum da vincente (nel 2008 alla provincia di Roma, nel 2013 e la scorsa domenica alla regione), provenienza ex pci e vocazione ulivista, a più riprese gli hanno tirato la giacca per sfidare Renzi. Ma chi lo invocava è finito sempre deluso.

STAVOLTA PERÒ potrebbe andare diversamente. Vinto il secondo mandato in regione (dove però è alla ricerca di una maggioranza, che al momento non ha), il suo sbocco nella politica nazionale un domani è più probabile. Coalizionista (ha vinto alleando al Pd anche Liberi e uguali e gli ex Sel, Bonino, socialisti e civici), dialogante (ieri ha voluto incontrare la sindaca di Roma Raggi, M5S). unitario nel partito, pragmatico e un tantino buonista, Zingaretti da molti è considerato l’uomo giusto per la ricostruzione del Pd. «Rigenerazione del partito e della sinistra»», dice lui. «Restaurazione e ritorno al Pci» dicono quelli che vedono come il fumo negli occhi il rientro del Pd nei binari di un partito socialista, da cui Renzi lo ha fatto deragliare.

Ha un buon rapporto con Gentiloni, che in campagna elettorale lo ha più volte vezzeggiato: «Quando vedo Zingaretti e la serenità che esprime mi sento tranquillo», «È forte Nicola».

ZINGARETTI VORREBBE esportare a livello nazionale il «Modello Lazio». Non il vecchio trapassato Ulivo, assicura, ma «il suo spirito innovativo, la voglia di stare insieme e vincere insieme», dice a Repubblica. Non è un caso che ieri Paolo Cento, di Sinistra italiana, ha parlato di «una buona notizia» a cui «Leu non può essere indifferente». Ma il segretario Fratoianni vede come fumo negli occhi l’idea di rifare «un Pd pre-Renzi». Nei prossimi giorni Leu dovrà decidere se andare avanti o dividersi, magari già in parlamento. La ’sirena’ Zingaretti potrebbe riportare all’ovile gli ex scissionisti?

I BIG DEL PD, che si erano precipitati ad accogliere il neotesserato Calenda, restano freddini, tranne Andrea Orlando, capo della minoranza. Ma se davvero decidesse di candidarsi, Zingaretti non lo farebbe per conto dell’area ex Pci, ma – spiegano i suoi ’romani’ – per mettere insieme anche i centristi di Areadem (Franceschini), come già fa in regione. Di più: c’è chi legge le sue parole sull’ex segretario («è un’esperienza che non possiamo liquidare, sarebbe bello se anche Renzi spingesse verso la rigenerazione») una mano tesa ai «rottamatori» ormai destinati alla rottamazione. Una differenza non da poco in confronto all’operazione di «derenzizzazione» attribuita a Calenda. C’è però la «questione settentrionale», dove il Pd ha perso rovinosamente. Zingaretti, due volte governatore del Lazio, ha il fianco Nord molto scoperto.

SI VEDRÀ A SUO TEMPO. Perché l’operazione, se mai esiste, ha tempi lunghi, andrebbe in porto se le primarie cadessero nella primavera del 2019, subito prima delle europee.

NEL FRATTEMPO IL PD non può rimanere senza leader e allo sbando. La direzione di lunedì dovrebbe convocare l’assemblea nazionale per metà aprile. Lì le opzioni sono diverse: eleggere un segretario senza passare per i gazebo. Oppure aprire il lungo percorso congressuale (circoli, convenzione nazionale, primarie) nel pieno della crisi del partito. Nel primo caso fra i papabili c’è il vicesegretario Maurizio Martina, uomo di «garanzia» dei «derenzizzatori»; e Graziano Delrio, forte anche del sì dei renziani, che potrebbe arrivare fino a fine mandato, nel 2021.

IN CASO DI PRIMARIE invece si scaldano ai box Zingaretti e Calenda. Ieri il ministro ha fatto il suo debutto nella sede del Circolo Roma Centro e ha conquistato il suo primo zoccolo di iscritti: «Si vince e si perde tutti assieme. La disfatta è anche mia», ha detto, «Ora basta scontri. Se prosegue questa autoflagellazione le prossime elezioni rischiano di essere una scelta tra M5S e Lega. Sarebbe la fine del riformismo in Italia». Ovazione degli astanti.

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MA È UN ATTIVISMO che non piace al presidente Matteo Orfini: «Leggo che ogni giorno qualcuno litiga, qualcuno si auto-candida, qualcuno invoca i padri nobili, qualche padre nobile indica i nomi del futuro, qualcuno chiede processi, qualcun altro la damnatio memoriae. Qualcuno sottolinea la dimensione storica della sconfitta, e dando una risposta all’altezza convoca assemblee di corrente», scrive su facebook. «Non è un gran bello spettacolo».