«Farò uno sforzo per ricostruire in ogni modo uno spirito unitario, sento su di me tutto il peso di questa responsabilità». Alla vigilia della direzione, convocata per stamattina, il segretario Pd prova a buttare acqua sulle polemiche che nel week end ha ritrasformato il partito in un campo di battaglia. Ad accendere le polveri è stato il caso Csm che si è abbattuto sul Nazareno. Ma anche la nuova segreteria nominata sabato e comunicata direttamente alle agenzie. Una caduta di stile, certo, ma con abbondanti precedenti nel Pd ultimo scorso. I turborenziani sono furibondi, la minoranza «realista» di Base riformista tiene i toni più bassi causa l’«autosospensione» – qualsiasi cosa voglia dire – di Luca Lotti, che è uno dei fondatori. Sui social il partito è sulla graticola: i militanti per lo più attaccano i renziani e fanno appelli all’unità, come ai bei tempi di Renzi e gli scissionisti, ma a parti invertite. Zingaretti da Roma e, nel pomeriggio, da Bologna, parla di «dialogo» per «verificare le condizioni di un passo avanti insieme, almeno sul terreno della politica e dell’iniziativa». Ma sulla segreteria almeno una parte delle critiche (Alessia Morani: «Bullismo correntizio») presto si è rivelata un fuoco di paglia: lo stesso Roberto Giachetti, frontman della corrente Sempre avanti, ha dovuto ammettere di essere stato invitato a farne parte, ma di aver declinato.

INVITI ALL’UNITÀ arrivano dai nuovi zingarettiani di complemento, come Maurizio Martina: «Così siamo respingenti». Carlo Calenda prova a ricavarsi un ruolo da pontiere, ma sbaglia a prendere le misure. Le cose serie, dice, sono due: il noto caso Lotti e il caso Giorgis. È, quest’ultimo, il nuovo responsabile delle riforme scelto fra i pochi rimasti nel Pd che al referendum del 2016 hanno votato no. Su Lotti, dice Calenda, «ho reputato inaccettabile il suo comportamento». Quanto a Giorgis: «È un problema ma anche quelli che sono rimasti fuori perché volevano rimanere fuori e poi si arrabbiano perché sono rimasti fuori, succedeva la stessa cosa con le minoranze quando il segretario era Renzi». Le minoranze replicano attaccandolo per aver «condannato Lotti sulla base di stralci di intercettazioni illegali».

NIENTE PACE INTERNA, dunque, i decibel restano alti. Tanto più per la coda velenosa delle amministrative, il filotto delle sconfitte sarde. Eppure la minoranza renziana deve escludere la scissione: Renzi stesso l’ha fatto già pubblicamente, né il caso Lotti può essere realisticamente il detonatore di una rivolta centrista contro Zingaretti.

OGGI DUNQUE SI ASPETTA la relazione di Zingaretti. La reazione della minoranza, «dipende da quello che dirà», spiega Giachetti. Assenti Renzi, Rosato, coordinatore della rete renziana – che ieri su La7 ha spiegato che «Zingaretti è un segretario ma non è leader», tanto per svelenire il clima – e l’«autosospeso» Lotti.

IL SEGRETARIO metterà l’accento sul baratro della situazione politica: «In Italia governa Salvini con politiche economiche sociali e culturali drammatiche e noi non possiamo non vedere che questa è la priorità assoluta». «Questa segreteria non è il nuovo Pd che aveva promesso Zingaretti», replica Anna Ascani. È vero, ma assai di più nel senso opposto a quello che intende l’esponente renziana. I segnali di discontinuità in una segreteria sterminata e costruita sul Cencelli della nuova maggioranza non sono molti: Giuseppe Provenzano alle politiche del lavoro, non un fan del jobs act, come del resto Marco Miccoli, capo della segreteria, e Marco Furfaro, ex Sel a capo del forum dell’associazionismo, oltre allo stesso Giorgis. E Orlando vicesegretario. Tra le figure delle vecchie stagioni spicca invece l’ex ministra della Difesa Roberta Pinotti, passata dal tifo per gli F35 alle politiche della sicurezza. d.p.