Per ora lo scontro è sotto traccia, felpato e dissimulato. Ma che ci sia è certo. Forse non direttamente tra Matteo Renzi, il leader del Pd che brucia per l’impazienza di correre alle urne, e Paolo Gentiloni, il suo successore a palazzo Chigi che comprensibilmente ha meno fretta. Però sicuramente tra le due squadre: il governo da un lato, con i ministri capibastone come Franceschini e Orlando, e la sempre più ristretta cerchia di fedelissimi renziani dall’altra.

La voce che ha circolato per un paio di giorni dell’imminente sostituzione del capo dei senatori Luigi Zanda con Andrea Marcucci, megafono di Renzi a palazzo Madama, appare destituita di ogni fondamento. Zanda non ci pensa per niente e comunque l’elezione di Marcucci a scrutinio segreto da parte del gruppo sarebbe stata comunque a fortissimo rischio di affossamento. Poco credibile anche l’ipotesi di assegnare a Marcucci la presidenza della commissione Affari costituzionali, vacante dopo la promozione al governo di Anna Finocchiaro sostituita per ora proprio da Zanda. La postazione è strategica, dal momento che proprio da lì passerà la legge elettorale una volta recapitata dalla Camera, ma che Marcucci possa essere eletto, in una commissione dove il voto della minoranza Pd è determinante, sembra poco più di un miraggio.

E’ interessante segnalare che tra i senatori del Pd, e non solo tra quelli della minoranza, regna il sospetto, anzi per molti la certezza, che le voci in questione siano partite direttamente dai piani alti del Nazareno, con l’obiettivo di «avvelenare i pozzi», cioè di ostacolare una distensione che, soprattutto al Senato, allontanerebbe ulteriormente le elezioni. Identico scopo avrebbe il cambio di marcia deciso da Renzi a proposito dell’accordo con Fi sulla nomina all’Agcom del forzista ex Pd Vito Di Marco, dopo la scomparsa del commissario Antonio Preto.

Fino a pochi giorni fa l’accordo era a portata di mano, perseguito da Zanda con la benedizione del segretario. All’improvviso Renzi ha cambiato idea e stabilito che non si può lasciare un posto così esposto al conflitto di interessi a Berlusconi, nonostante sia in ballo una partita ritenuta di interesse nazionale come il tentativo di scalata Vivendi a Mediaset. Come se non bastasse aver bloccato, salvo possibili e ulteriori ripensamenti, un’intesa che avrebbe reso la vita della maggioranza al Senato molto più facile, il tam tam renziano attribuiva ieri la responsabilità del veto proprio al gruppo dei senatori.

Sono tutti segnali di uno scontro destinato a esplodere dopo la sentenza di oggi della Consulta e che da quella sentenza sarà fortemente influenzato. Ove la Corte decidesse di intervenire anche sui capilista bloccati, come è possibile anche se non probabile, la presa di Renzi sul Pd ne uscirebbe maciullata. E’ proprio la norma sui capilista, infatti, che permette al segretario di decidere chi entrerà con certezza nel nuovo Parlamento, e quindi di tenere sotto scacco il partito. Ma anche qualora la norma sui capilista rimanesse intonsa, è un fatto che l’eventualità del voto in giugno dal 4 dicembre a oggi si è sempre più allontanata. Come era facilmente prevedibile, a incrinarsi è stato il blocco renziano all’interno del Pd, quell’alleanza tra il leader e i capicorrente come Franceschini, Orlando e Martina, che oggi sono tutti schierati con la squadra del governo e del rinvio delle elezioni, contro quella del Nazareno, che conta ormai praticamente solo la guardia d’onore renziana e il presidente Orfini.

A Renzi resta tuttavia una carta importante, anche se probabilmente non decisiva, per premere l’acceleratore. Anche se i dati diffusi ieri, che registrano nel terzo trimestre del 2016 una discesa del sempre vertiginoso debito pubblico dal 135,5% del Pil al 132,7% migliorano la posizione italiana nella trattativa con l’Europa, il rischio di una manovra massacrante in ottobre resta altissimo. Nel Pd l’ idea di dover votare subito dopo una manovra «lacrime e sangue» non piace davvero a nessuno. Ma del resto anche quella di dover affrontare il braccio di ferro con l’Ue senza un vero governo, dunque in posizione di massima debolezza, appare ben poco sorridente.