Milano regge, ed è la città su cui Renzi ha puntato di più sin dall’inizio della campagna delle comunali. Ma al Nazareno non basta per inventarsi uno storytelling della vittoria. Non basta neanche il positivo – combattuto ma comunque atteso – risultato di Virginio Merola a Bologna. La batosta romana, ma soprattutto lo choc di Torino, storica roccaforte della sinistra che a sorpresa deve cedere il passo ai 5 stelle fa calare il gelo nella stanza del segretario. Il consiglio di guerra è composto dalla vicesegretaria Deborah Serracchiani, il presidente Matteo Orfini ed il tesoriere Francesco Bonifazi. Alla fine ci sarà solo una nota ufficiale con «i migliori auguri di buon lavoro da parte del Pd» ai nuovi sindaci. Quanto alla bomba del voto: il quadro «è molto articolato. Perdiamo alcuni comuni dove abbiamo governato a lungo e vinciamo in altri dove da vent’anni la destra era maggioranza. Resta l’amaro in bocca per alcune sconfitte molto dure, da Novara a Trieste». Insomma il dato è «frastagliato». Ma al di là del politichese l’allarme rosso lo esprime più di tutti l’immediata convocazione della direzione nazionale per venerdì 24 giugno.

«In ogni caso non abbiamo vinto», qualcuno spiega. E ti credo. Il voto dei ballottaggi per Renzi non è un campanello d’allarme. È un campanaccio. Parla delle condizioni del partito e della sua persona: l’aria è cambiata, il 41 per cento delle europee è un ricordo. Il premier-segretario sa che stavolta per i suoi candidati non è stato un valore aggiunto. Anzi. Non ha giovato aver buttato nel mezzo della campagna elettorale la battaglia del referendum costituzionale, tema «divisivo» che ha messo in difficoltà i candidati. I passi indietro alla vigilia dei ballottaggi non sono bastati.

E poi c’è la Capitale. Ribaltare il risultato del primo turno, nonostante la combattività del candidato, era una missione impossibile. A urne appena chiuse il presidente dei deputati Ettore Rosato ammette a Porta a Porta: «Dobbiamo prendere atto di questo risultato, partendo dagli errori fatti a Roma e ma anche da quanto di buono è stato fatto».

Ma il buono non è molto, e la percentuale verso cui precipita Bobo Giachetti, il 32 per cento, lo conferma. Lo sconfitto chiude la partita prima della mezzanotte presentandosi ai giornalisti e annunciando di aver fatto gli auguri alla nuova sindaca. Si carica sulle spalle la responsabilità del risultato: «È una sconfitta che mi appartiene». Gesto elegante. Ma le cose non stanno così, il candidato – renziano ma sui generis – ha fatto il massimo. E ora il tonfo apre ufficialmente il «caso Roma»: dopo un anno e mezzo di commissariamento di Matteo Orfini, dopo il profondo ridisegno della fisionomia del partito e – non ultimo – dopo la sordina messa ai tanti malumori del corpo militante. «Oggi siamo un altro partito», aveva detto Giachetti alla chiusura della campagna elettorale. Vero. Ma che partito è diventato oggi il Pd a Roma? La risposta stava nelle facce interrogative dei sostenitori accorsi venerdì pomeriggio al Ponte della Musica, alla chiusura della campagna per i ballottaggi. Dov’erano bandite le bandiere del Pd. L’ultima fiammata della campagna, all’attacco forsennato di Virginia Raggi per le consulenze taciute, in pieno stile grillino e del tutto fuori delle corde dello stesso candidato, non è servito se non a disorientare l’elettore dem alle prese con toni lontani dalla sua cultura.

Renzi ha annunciato di voler entrare «con il lanciafiamme» nel partito. Forse non solo quello di Napoli, il primo a cadere e non arrivare neanche ai ballottaggi, ma anche in quello di Roma. La tentazione sarà quella di accollare le sconfitte ai dirigenti non renziani: la componente dei giovani turchi firma il risultato di Napoli (la candidata Valente è vicina a Orfini e al ministro Orlando) e quello di Roma, sotto la regia di Orfini. Ma se Renzi cercherà capri espiatori come ha fatto fin qui sarà solo per sfuggire alla realtà della crisi del suo partito. La battuta d’arresto di Torino, svela che il disimpegno coinvolge anche lo zoccolo duro.

Regge invece a Milano. E regge non si può non vederlo, quando il Pd si apre a sinistra – male, bene, sarebbe un’altra storia. I primi dati parlano di 17mila voti determinanti per Sala al secondo turno: esattamente lo stesso risultato di Basilio Rizzo di Milano in comune.

È il tasto che batterà adesso la minoranza del partito, quella di Bersani, Speranza e Cuperlo. Che ha lavorato alla campagna elettorale per non essere accusata di «puntare alla sconfitta» ma che ora prepara l’affondo proprio sulla ricostituzione del centrosinistra e sulla modifica del premio di maggioranza dell’Italicum dalla lista alla coalizione. Da giorni Bersani si morde la lingua e promette di parlare «dopo il voto». L’appuntamento fissato in largo anticipo dai riformisti proprio il 24 giugno, ieri notte è saltato d’imperio, sostituito dalla direzione del partito. Sarà lì che si aprirà l’attacco. E Renzi potrà decidere se andare avanti con il renzismo ad oltranza, inventandosi nuovi nemici interni e nuovi gufi, oppure se raddrizzare la barra, dentro e fuori il Pd, e aprire una nuova stagione. Prima del referendum.