Celebrato il pre-congresso nell’insalatiera di Montecitorio, è questa la descrizione che del Pd dà Beppe Fioroni, ex popolare che nella caccia agli impallinatori di Romano Prodi ha sfoderato l’ alibi fotografico: «Il Pd è come un Kebab – dice – e ora siamo arrivati all’affettamento finale, ne è rimasta una piccola parte».

Il partito arriva senza segretario e frastornato dagli schiaffoni di Napolitano allo showdown di oggi pomeriggio in direzione, dove saranno decisi i tempi del congresso, a chi sarà affidata fino ad allora la reggenza (probabilmente a un comitato guidato da Enrico Letta, mentre Bersani risponde no a chi gli chiede di restare da dimissionario) e la linea da tenere nelle consultazioni sul nuovo governo (ma già questa mattina il capo dello stato farà un primo gito d’orizzonte). Da definire chi andrà in delegazione sul Colle con i capigruppo Speranza e Zanda.

Nell’attesa, altri coltelli già si affilano. Sferra i suoi colpi Massimo D’Alema, rispondendo a un giornalista di Piazzapulita: «Ma è una vergogna, una vergogna autentica – risponde l’ex premier diessino a chi lo accusa di aver orchestrato l’affondamento del professore bolognese – chi dice questo è un calunniatore, io lo denuncerò». Semmai, aggiunge, «dietro la sconfitta di Prodi c’è la regia di chi lo ha candidato in un modo francamente assurdo, perché non si può tirare fuori in questo modo la candidatura di Prodi senza una preparazione, senza un’alleanza». Comunque io non faccio parte né dei parlamentari del Pd né degli organismi dirigenti, non vedo perché lei si rivolga a me…».

Per essere uno fuori dai giochi, D’Alema mena fin troppo duro su un Pier Luigi Bersani già al tappeto. Accuse che in qualche modo ridimensionano la responsabilità di Matteo Renzi, che su Prodi aveva puntato e che ieri, da Repubblica, lanciava il suo progetto per «cambiare il partito e cambiare l’Italia», dettando tempi e programmi del nuovo governo: «Se in sei mesi o in un anno realizza un po’ di interventi, ci guadagna il Pd e il Paese. Mettiamoci la faccia, non inseguiamo i grillini. Diciamo noi quello che va fatto». E, aggiunge a sera il sindaco, che oggi sarà in direzione, metterci la faccia significa Enrico Letta presidente del consiglio. Anche se Letta non dovrebbe entrare proprio nell’esecutivo.

Alla direzione di arriva con una vigilia di bordate e accuse che vengono anche da molto lontano. Come quelle di Achille Occhetto che parla di «vero e proprio complotto» organizzato dai «capibastone» che possono essere tanti, «sicuramente D’Alema, Fioroni, Letta e altri», sostiene senza temere denunce. Poi c’è Pippo Civati, dato in uscita verso Sel ma lui smentisce e attacca: «Si parla molto di traditori, ma state attenti: perché i soliti protagonisti della politica italiana che ora chiamate così poi potreste ritrovarvi, tra qualche ora, a chiamarli ministri». «Se Civati sa chi ha tradito lo dica, io non addito nessuno. Il voto segreto – gli risponde Dario Franceschini – è il vantaggio delle ipocrisie. Bisogna fare chiarezza ma io non accuso nessuno, non ho l’autorità. né io né Civati».

Ma l’ex rottamatore – che potrebbe confermare l’intenzione di correre al congresso contro Renzi – chiede anche di chiarire la questione delle condizioni poste da Napolitano per accettare il secondo mandato, perché «nessuno ne ha parlato ufficialmente e Bersani ha spiegato che non c’erano».
L’ex neo presidente della repubblica ieri ha parlato molto chiaramente. Ma nonostante i fortissimi mal di pancia è altamente improbabile che si consumi una scissione sul governo che verrà, comunque lo si voglia chiamare: «Governo di scopo – preferirebbe Cesare Damiano – ben diverso, al di là dei nominalismi, da un esecutivo basato su un improponibile accordo politico tra Pd e Pdl». Accordo che è nelle cose e sostenuto dalla maggioranza del partito: «Serve un governo politico», dice Anna Finocchiaro e non solo.

Per il giovane turno Matteo Orfini, nell’intesa dovrebbe invece essere coinvolto anche il Movimento 5 Stelle, «io sono contrario a un patto Pd-Pdl» (non è della stessa idea Andrea Orlando) e «su questa linea insisterò anche in direzione». Dopodiché, annuncia Orfini, «se sono contrario voto contro, il voto di fiducia è un voto di coscienza, non c’è disciplina di partito». «Chi voterà contro la decisione assunta dalla maggioranza del partito è inevitabile che sarà messo fuori», risponde duro Dario Franceschini. «Siamo arrivati a un momento di chiarezza e quelli che non sono d’accordo se ne vanno», fa eco Fioroni. Scontro pesantissimo, insomma, ma Orfini e gli altri ’turchi’ a andarsene non ci pensano proprio. Il voto di fiducia di fatto aprirà il congresso, e certo non sarà una passeggiata.