Politica

Pd senza capo né candidato

Democrack Democratici in piena frana, il crollo mette a rischio la coalizione. La sinistra del partito cerca di ritessere la tela con Sel. Bruciato Marini, Bersani annuncia una «fase nuova», ma quale non lo sa. Ed è ormai un ex. Ora il leader tende una mano a Renzi. Che resta freddo: «Vedrò dei dirigenti, non lui» «Fermate la giostra, riprendiamo il dialogo». Ma Vendola resta su Rodotà

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 19 aprile 2013

«Noi votiamo per Rodotà. Perché il Pd non lo vota? Non abbiamo ancora ricevuto una risposta vera. E non si dica che è il candidato di Grillo: ma si ricordano chi è il professore? E sia chiaro, per noi non è un problema di nomi ma di schema. Se esce dall’orizzonte il governissimo, siamo pronti a ragionare anche su un altro candidato». A fine pomeriggio il giovane vendoliano Nicola Fratoianni riassume così lo stallo del centrosinistra. Le prime due votazioni sulla presidenza della repubblica hanno fotografato un Pd spappolato (nella prima a Franco Marini, il candidato Pd-Pdl-Scelta civica, vanno 521 voti, il quorum non c’è e mancano all’appello 222 sì; alla seconda il Pd si arrende alla scheda bianca), un segretario sul ciglio delle dimissioni (il sindaco di Bari Emiliano le chiede), una coalizione sull’orlo del precipizio. E nessuna luce in fondo al tunnel. Quanto alla coalizione, se non siamo alla riedizione del bertinottiano «svolta o rottura» (era il ’98), poco ci manca. Bersani, il segretario che voleva «riorganizzare il campo del centrosinistra», che ha voluto Sel come principale alleato, che ha quasi imposto due nomi «di rinnovamento» alle presidenze di camera e senato, stavolta calando il nome di Marini alla Colle ha rischiato di far esplodere tutto, se per primo. «Noi la coalizione la vogliamo salvare», giura Gennaro Migliore, capogruppo Sel alla camera. Non c’è da dubitarne: sabato scorso Sel ha annunciato l’inizio delle manovre di avvicinamento verso il Pd. Ma non è questo il partito con cui voleva «mescolarsi». Ovvero la frana che va in scena nel Transatlantico, capannelli nevrotici l’un contro l’altro armati, bersaniani doc contro bersaniani dop, popolari contro prodiani, giovani turchi e renziani contro tutti.
I padri nobili del Pd provano a ritessere la tela a sinistra. Mario Tronti, filosofo e fondatore dell’operaismo italiano, oggi senatore Pd, ferma Migliore, che però non molla: «Avete sbagliato strategia, ripensateci». Gianni Cuperlo, intellettuale raffinato e dalemiano parla con Vendola: il tema è sempre quello, come uscire dall’empasse, vivi e uniti. Quando all’inizio della seconda chiama Dario Franceschini convoca Migliore per comunicare la scelta del Pd di votare scheda bianca, si sente rispondere: «Sel resta su Rodotà». «Fermate la giostra, riprendiamo il filo della discussione» è l’appello che Vendola ripete per tutto il pomeriggio all’indirizzo del Pd.
Ma quale Pd? Cos’è rimasto del partito democratico? E chi ha in mano il bandolo di una foresta ormai impenetrabile di vecchie ruggini, rancori, nodi che arrivano al pettine? All’ora del pranzo Bersani riunisce il suo direttorio – Letta, Franceschini, Zanda, Fioroni, Errani e Migliavacca -, lo stesso che aveva partorito il disastroso sì a Marini, il candidato meno sgradito a Berlusconi. Può questo gruppetto di uomini trovare la soluzione che fin qui non ha saputo trovare? Infatti è fumata nera. Dopo il suo secondo voto a perdere, Matteo Orfini sbotta: «Non so dove siano riuniti, trovo surreale anche non saperlo». «A questo punto dobbiamo rimettere insieme la coalizione», ammette Stefano Fassina, l’unico turco rimasto al fianco del segretario sulla scelta di Marini. «Ora ci vuole un nome istituzionale», dice Andrea Orlando. Ma «istituzionale» è parola piena di sfumature di bruciato. Bruciato è Marini, che però fa sapere che non si tira indietro. Risalgono le quotazioni di D’Alema e Mattarella. Ma Sel potrebbe rimanere ancorata a Rodotà: entrambi non sarebbero garanzia del «cambio di schema», non allontanerebbero lo spettro del governissimo.
La serata è uno sparpagliamento di cene per bande. Pippo Civati prepara una lettera di sostegno alla candidatura di Prodi. Ma sul professore resta il niet degli ex ppi. Stesso dicasi per i turchi. «Queste sono le menti a cui siamo finiti in mano», dice Sandra Zampa, ex portavoce di Prodi, indicando un franceschiniano che passa dietro di lei. «Così è finito il centrosinistra, così è finito il Pd, così è finito tutto». Per i prodiani, è l’ennesimo remake di una vecchia storia. Renzi cala a Roma e riunisce i suoi a Eataly, se cena dev’essere, dev’essere in una delle eccellenze del made in Italy. Alle due chiame hanno votato Sergio Chiamparino, ex sindaco di Torino. Ma dicono sì a Prodi. Bersani annuncia «una fase nuova, a questo punto tocca al Pd la responsabilità di avanzare una proposta a tutto il parlamento. Sarà, come nostro costume, decisa nell’assemblea dei nostri grandi elettori». Com’è andata l’assemblea di mercoledì notte è storia nota. Ma una soluzione ancora non c’è, l’appuntamento slitta a stamattina alle 8, prima della terza votazione. Anzi, una soluzione è così lontana che il Pd chiede di far slittare la quarta votazione.

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