«Io sto alla larga, alla larghissima» dalla partita sui presidenti delle Camere, «stanno decidendo i caminetti». La promessa di non parlare «per due anni», fatta solo il giorno prima, è andata subito in soffitta, come del resto altre dell’ex segretario del Pd. Ieri mattina Matteo Renzi entrando al senato si è lasciato scappare qualche battutaccia. È più forte di lui.

Ma l’allusione ai caminetti, ora che al Nazareno ricominciano ad essere convocate le riunioni dei capicorrente (alcuni dei quali anche senza corrente) ha fatto spazientire il pazientissimo Maurizio Martina, che si è sentito punto sul vivo: «Si chiama collegialità», ha replicato ai cronisti che gli chiedevano un commento.

Più tardi Renzi ha aggiustato il tiro: «È chiaro che non mi riferivo al Pd ma a quelli del M5s con la Lega».

LE INTEMPERANZE del segretario, la sua tendenza «maoista» a «bombardare il quartiere generale» (copyright Andrea Orlando), sono una parte delle fibrillazioni che attraversano il Pd in queste ore.

IERI SUL VOTO DEI PRESIDENTI delle camere gli eletti dem hanno votato compatti i candidati di bandiera: al senato Valeria Fedeli ha preso 52 voti su 54, alla camera Roberto Giachetti 102 su 112. Ma il prezzo di questa compattezza è stato l’immobilismo: il Pd è rimasto fuori dai giochi in obbedienza alla linea renziana del «tocca a loro», cioè a Lega e 5 stelle. La minoranza interna non era d’accordo. «Potevamo concorrere alla scelta delle figure istituzionali indicando delle figure di garanzia», dice Andrea Orlando. Nella sua area c’è chi usa parole più pesanti: «Se continuiamo così sulla linea dell’immobilismo il Pd rischia di diventare un ente inutile».

LA TREGUA INTERNA però è fragile. Destinata ad essere messa già a dura prova martedì pomeriggio alle 15 e 30 quando i gruppi di camera e senato sono convocati per eleggere i due presidenti. In entrambe le camere i renziani continuano ad avere la maggioranza. Per questo spiegano che sarà eletto il tandem Guerini-Marcucci: alla camera un renziano «pontiere», al senato un turborenziano.

DALL’AREA ORLANDO arriva una smentita: «Non c’è nessun accordo e, per ora, neanche nessun appuntamento per discuterne prima di martedì». Non che le minoranze possano contare su grandi numeri: gli orlandiani sono 13 in tutto, la corrente del presidente Emiliano è ridotta a poche unità di entusiasti del neopresidente della camera Roberto Fico. Ma la discussione, almeno quella del senato, si potrebbe complicare per i malumori di altri senatori. Come il franceschiniano Luigi Zanda per il quale «non è pensabile che i due capigruppo rappresentino solo l’anima renziana del Pd», come ha detto qualche giorno fa al Corriere. Provocando una reazione di sfida fra i vicini all’ex leader: «Se qualcuno preferisce contarsi, si va alla conta».

C’È ANCHE LA QUESTIONE dei vicepresidenti delle camere, che si decideranno in settimana. Lega e 5 stelle, che ormai agiscono di concerto, hanno fatto sapere agli ambasciatori dem che il Pd ne potrebbe avere una a Montecitorio (per la quale sono in ballo Roberto Giachetti o Ettore Rosato ma c’è anche un’ipotesi Barbara Pollastrini, area cuperliana) e una a palazzo Madama (che potrebbe andare all’orlandiana Rossomando).

TUTTE PARTITE ANCHE INTERNE sulle quali si misurano i nuovi equilibri del Pd. In attesa dell’assemblea nazionale che dovrà nominare un nuovo segretario senza primarie. Ieri il presidente Orfini ha spiegato l’assemblea nazionale dovrebbe tenersi a aprile, «ma molto dipenderà dai tempi delle consultazioni». Tanto il Pd non ha fretta di eleggere un segretario: sul nome di Martina, candidato naturale alla carica, non c’è accordo.