Finirà con un forte ridimensionamento del codice antimafia, approvato con grandi suoni di trombe lo scorso autunno, o almeno con l’introduzione di una sua «interpretazione autentica», se non direttamente con la sua cancellazione, che però coprirebbe il partito democratico di ulteriore ridicolo e sarebbe un altro bel regalo alMovimento Cinque Stelle.

Ieri pomeriggio è andato in scena il primo round della guerra (di nervi e non solo) contro la presidente della commissione Rosy Bindi. La riunione dei commissari del Pd è servita a provare a lavare in casa i panni sporchi. Il renzianissimo Ernesto Carbone, che nei giorni della «lista degli impresentabili» è stato duro e molto sopra le righe (aveva twittato: «Bindi sta violando la Costituzione, allucinante che si pieghi la commissione antimafia a vendette interne di corrente partitica») ieri è tornato alla carica. La curva renziana, di cui è una prima fila, sostiene che la lista dei cosiddetti impresentabili «ha danneggiato il partito». Ma il fronte non è compatto. Alla vigilia del voto il capogruppo dem in comissione, Franco Mirabelli, aveva solidarizzato con Bindi. E più tardi Alessandro Naccarato, anche lui in maggioranza nel Pd ma di rito turco, aveva persino voluto associarsi alla presidente quando Vincenzo De Luca le aveva annunciato querela. «Una cosa del tutto fuori luogo» aveva detto, Bindi «si è limitata a fare una cosa normalissima: ha posto una questione che tutti sapevano e facevano finta di ignorare, quella della applicazione della legge Severino».

Oggi il nuovo match, con un altro round interno prima della seduta plenaria convocata per la sera. All’ordine del giorno ci sono le comunicazioni della presidente. Che rischia anche un voto di sfiducia. Nel Pd lo scontro sulla «black list» è ancora forte. Lo si è visto alla riunione della direzione, dove De Luca è intervenuto fra gli applausi, come una star. Mentre il presidente Orfini twittava: «Il codice non prevede liste di proscrizione. Che sono l’unica cosa indegna di questa vicenda».

Al netto delle botte da orbi fra renziani e minoranze, il nodo starebbe proprio nel codice: che lascia ampi margini di interpretazione all’operato della presidente. Forse troppo ampi. All’art. 4 infatti recita: «La Commissione parlamentare di inchiesta, nell’ambito dei poteri ad essa conferiti e dei compiti previsti dalla legge istitutiva, verifica che la composizione delle liste elettorali presentate dai partiti, dalle formazioni politiche, dai movimenti e dalle liste civiche che aderiscono al presente codice di autoregolamentazione corrisponda alle prescrizioni del codice stesso». Margini di interpretabilità, nei modi e nei tempi, che però non avevano suscitato nessun dubbio nei combattivi garantisti di questi giorni. Che adesso vorrebbero correre ai ripari, con il rischio però di infilarsi in un ginepraio. «Penso che sia sbagliato l’uso che è stato fatto del codice di autoregolamentazione», spiega Mirabelli, «e quindi va valutato se e come la commissione antimafia deve intervenire sulla valutazione delle liste prima delle elezioni. Sicuramente non va ripetuta l’esperienza di queste settimane».

L’argomento può rivelarsi un boomerag alla vigilia del decreto governativo su De Luca e nei giorni in cui il Pd di Roma si scopre sempre più prigioniero della rete di Mafia Capitale. Per questo nessuno, a quanto si capisce, arriverà a chiedere le dimissioni di Bindi. «Il tema non è stato posto», riferisce Mirabelli, per ora «la discussione è stata positiva», giura Naccarato. E si capisce: il Pd non può sostenere troppi fronti di fuoco contemporaneamente. Tanto più con i numeri ballerini al senato, che ieri hanno già fatto andare sotto il governo in commissione sul ddl scuola.
L’uscita più indolore dalla polemica sarebbe un’aggiustatina al codice. Mirabelli ne è certo: «Non è lo strumento adatto. Ma su questo punto discuteremo». La verifica delle candidature dunque verrà effettuata a elezioni avvenute. Ai cittadini verrà spiegato chi hanno eventualmente votato. E ormai eletto.