Venerdì a Firenze, alla presentazione del libro di Marco Minniti, aveva spiegato con finta modestia che «il servizio migliore che posso dare è quello di non mettere il cappello sulla sua candidatura». E così Matteo Renzi ieri non è andato all’assemblea nazionale del Pd, all’Hotel Ergife di Roma. Si è procurato questa scusa elegante per stare alla larga dal congresso del suo partito e da un candidato che la metà dei suoi non mandano giù. L’altra metà invece gli farà campagna convinta che solo la vittoria di Minniti allontana la scissione, forse. Al seminario di Salsomaggiore sono stati molti i renziani che hanno chiaramente detto che non rimarrebbero nel Pd «che torna Pds», spronando Renzi a mettersi in proprio. Anche se poi le conclusioni politiche sono state affidate all’«unionista» Lorenzo Guerini. Ma non è detto che la vittoria di Minniti basterebbe.

Oggi intanto Minniti annuncerà la candidatura al programma In mezzora di Lucia Annunziata (Raitre) e probabilmente anche con un’intervista a Repubblica, per fare il pieno del pubblico «riformista». Al momento il suo stile comunicativo non potrebbe essere più lontano da quello di Renzi: l’ex ministro non ha un profilo twitter né facebook, non è brillante e tende a incattivirsi di fronte alle domande sgradite. La prossima settimana comporrà la sua squadra: ci saranno i renziani Guerini e Lotti. Non Teresa Bellanova: ieri ha rifiutato senza grazia il ticket con la pasionaria, troppo renziana per chi vuol fare la parte dell’indipendente.

Renzi si terrà alla larga dal dibattito congressuale. Ora più che mai è impegnato nella costruzione dei suoi «comitati civici» per trasformarli in un movimento che «non sarà in competizione con i dem», spiegano i suoi, e che nascerà «senza una scissione traumatica», formula misteriosa e velleitaria anche nella sinistra moderata. Magari per poi allearsi con il Pd alle politiche. E comunque tutto questo succederà dopo le europee: nonostante i sondaggi esangui, per Renzi è l’unico modo di portare un drappello di suoi a Bruxelles, per poi magari dirottarlo nel gruppo macroniano, ammesso che abbia i voti e le alleanze per nascere davvero.
Intanto ieri l’assemblea è iniziata con il non precisamente trascinante intervento di Frans Timmermans, semisconosciuto candidato dei socialisti alla presidenza della commissione europea, attualmente vicepresidente della stessa. Un ex diplomatico olandese non barricadero che è stato però ovazionato dai delegati per una frase non proprio folgorante: «Sarà una battaglia epica, possiamo vincere».

Per il Pd però non sarà una passeggiata portare a casa gli eletti. Fin qui gli italiani sono il primo gruppo dei Socialisti&democratici grazie al quasi 41 per cento delle elezioni del 2014, l’unica vittoria della segreteria di Renzi. Oggi in Italia e in Europa tira un’aria tutta diversa. La stessa esistenza della famiglia socialista a Bruxelles è a rischio.

ono stati proprio gli europarlamentari ieri a chiedere l’anticipo delle primarie, che dovrebbero svolgersi il 3 marzo. Se tutto va bene, ha spiegato un delegato, i nuovi organismi dirigenti saranno pronti a fine marzo, e da lì mancherebbero solo 50 giorni alle europee del 26 maggio e alle amministrative (vanno al voto 26 comuni capoluogo, fra cui Firenze, Perugia, Potenza, Campobasso e Bari). Minniti e Zingaretti sarebbero d’accordo. Ma non se ne farà nulla. Il motivo è che prima vanno al voto Sardegna, Basilicata e Abruzzo. La realtà è che i renziani ancora sperano nell’imponderabile che imponga lo slittamento del congresso.
Intanto il segretario Martina si è formalmente dimesso e il presidente Orfini ha proclamato la Commissione congressuale che si riunirà martedì e presiederà il congresso tra gli iscritti, la convenzione nazionale e le primarie fra i tre che avranno passato il primo turno. Per Minniti si muovono già i capibastone del sud. Martina si dispone alla corsa, sostenuto da Cuperlo e Orfini. Il risultato sarà l’azzoppamento al primo turno di Zingaretti. Il quale, consapevole di avere più chance ai gazebo, chiede di abolire la «tassa» di due euro per votare. Nella breve e accidentata storia del Pd non è mai successo che il voto del partito e quello delle primarie aperte non premiassero lo stesso candidato. Stavolta sembra l’eventualità più probabile.