Non è precisamente smagliante la prima uscita istituzionale di Maurizio Martina quando allo Studio alla Vetrata, all’uscita dal primo colloquio con Mattarella, svolge il suo intervento sbirciando dagli appunti. «L’esito elettorale per noi negativo non ci consente di formulare ipotesi di governo che ci riguardino in coerenza con il programma che abbiamo presentato agli elettori», recita il reggente Pd. Ai suoi lati i capogruppo di camera e senato Graziano Delrio e Andrea Marcucci, e il presidente Matteo Orfini, indossano facce di circostanza. L’intervento non decolla, Martina assicura che dall’opposizione il suo partito potrà essere «utile all’Italia», potrà «essere protagonista», e per fare un esempio propone l’allargamento del finanziamento al Reddito di inclusione: un provvedimento che però il Pd poteva fare dal governo. Fino a pochi giorni fa.

MA NON È PER QUESTO che nel pomeriggio, alla riunione della maggioranza renziana convocata a via Veneto, nello studio di famiglia del capogruppo al senato Marcucci – location curiosa per un caminetto di maggioranza – il candidato alla segreteria che mercoledì sera si era lanciato nella sua corsa per l’assemblea del 21 aprile, torna improvvisamente in forse. E neanche perché a differenza di tutti gli altri componenti della delegazione al Quirinale, Martina è l’unico a farsi venire un dubbio sull’opportunità di accettare l’incontro chiesto da Di Maio in vista del prossimo giro delle consultazioni del Colle. Un dubbio che in tutto il partito ha solo Francesco Boccia, area emiliano, da sempre favorevole al dialogo con i 5 stelle.

Alla fine, stanchi del tergiversare del reggente, saranno i renziani a far filtrare il «no» all’incontro. Non servono riunioni di gruppi parlamentari, sostengono, né di direzione, la linea resta quella del «tocca a loro». Viene spiegato: «Non ci sono novità rispetto ai giorni scorsi. Se Di Maio avrà l’incarico ovviamente lo vedremo, ma prima del nuovo giro di consultazioni questi suoi incontri sono solo propaganda a suo favore. Non ci prestiamo». Dal reggente non arriva nessuna nota con una risposta ufficiale.

L’INDECISIONISMO DI MARTINA non piace a Renzi. Ma soprattutto non piace ai renziani. Che non sono per niente convinti di affidargli il partito, anche per un «periodo-ponte». Non si fidano. Non apprezzano, per esempio, che sabato prossimo abbia deciso di partecipare a un’assemblea a Roma per la rinascita del centrosinistra, con Orlando e gli ex Pd Enrico Rossi e Alfredo D’Attorre .
A via Veneto arrivano Ettore Rosato, Lorenzo Guerini, Luca Lotti, Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi, Orfini, Guerini, Delrio e il padrone di casa, Marcucci. Non convince l’idea che sabato 21 aprile i giochi si chiudano subito sul reggente, che al momento è l’unico candidato. L’assemblea nazionale resta solidamente a maggioranza renziana. La minoranza orlandiana valuta di capire se ha senso lanciare ora un proprio nome verso una sconfitta già certificata.

MARTINA, che aveva ufficializzato la sua corsa convinto che Renzi l’avrebbe sostenuto, non ha fatto i conti con l’ala dura dei renziani. Molti dei quali non vorrebbero decidere il segretario in quella sede ma lanciare un altro nome, più ’fedele’, in un congresso vero con tanto di primarie e voti dei circoli. Un processo lungo almeno due di mesi. «Matteo sta ancora valutando ma molti di noi hanno chiaro cosa non vogliono…», spiega uno dei partecipanti al caminetto. Non lo vogliono perché – è il ragionamento che viene svolto – nel caso di ritorno al voto, Martina e la sua vocazione alla «gestione collegiale» rischia di cambiare il segno alle nuove liste.

ALLA FINE NESSUNA DECISIONE viene presa. Renzi, insolitamente nei panni del pompiere, invita i suoi a non precipitare le cose: «Calma e gesso». Il rischio di un congresso mentre si torna al voto c’è. Troppe mosse scomposte potrebbero terremotare un partito già malmesso. L’ipotesi di andare «oltre il Pd», e cioè oltre i socialisti europei fin dalle prossime elezioni per Bruxelles giustifica molti sospetti sulle sue reali intenzioni per il futuro del Pd. Anche per questo c’è chi giura che non gli dispiacerebbe rovesciare il banco e misurare subito, con la forza dei numeri, che il Pd è ancora nelle sue mani, e non ha bisogno di fare un partito suo: ce l’ha già.