Ignazio Marino, l’uomo su cui il Pd scommette l’osso del collo per invertire il mood di un anno iniziato male con la frana al voto di febbraio e proseguito peggio con i giorni dei franchi tiratori e del sì al governo con il Pdl, ha tenuto caparbiamente la sua campagna romana su un profilo civico a distanza con le beghe nazionali del suo partito. La crisi morde, Roma vive il momento più nero dopo gli anni di Tangentopoli, nella cassa e nella fiducia dei cittadini. Il timore di essere frenato dalla sfiducia, dal non voto, per non dire dall’ostilità verso le ’larghe intese’ Pd-Pdl, per Marino è stato tale da fargli scegliere quell’incredibile slogan «Roma non è politica», ammiccamento all’antipolitica, indigeribile per gli apparati del Pd e non solo.

Non è un caso che venerdì sul palco di piazza San Giovanni il chirurgo abbia voluto con lui, insieme ai 19 candidati minisindaci, solo il popolare presidente del Lazio Nicola Zingaretti. Il leader Pd Guglielmo Epifani è rimasto sotto il palco. Nessuna polemica con lui che appena eletto segretario si è messo a disposizione della corsa al Campidoglio, sciogliendo il gelo regnato con Bersani, distratto dalla sfida romana – come già lo era stato dalla sfida della regione – e poi travolto dalle vicende elettorali.
Epifani ha cercato di rincuorare i democratici avviliti: ma la piazza di San Giovanni semivuota è un segno preoccupante.

La riconquista del Campidoglio dopo il quinquennato di un sindaco post-fascista dato per bollito solo un mese fa, non è solo un affare della Capitale, che già non sarebbe poco. Se dovesse andare storto qualcosa, il rischio dell ’implosione finale del Pd è chiaro a tutti. Per questo negli ultimi giorni intorno al candidato si sono ricompattati anche i democratici di area centrista o dalemiana più lontani da Marino: Sassoli, Gualtieri, Marroni. E il renziano Gentiloni: che Marino ha omaggiato di un endorsement per il sindaco di Firenze tre giorni fa. Scelta sorprendente, alla vigilia del voto e per un’area che nella Capitale non gode di grandi simpatie. Ma che segnala che paradossalmente oggi nel Pd Renzi è il leader nazionale «meno divisivo».
Intanto per puntellare il partito e il futuro della sua leadership, Epifani pensa di riunire il 4 giugno la direzione che nominerà la segreteria e deciderà la road map del congresso: per novembre, come vuole la sinistra Pd, Gianni Cuperlo in testa; o per gennaio, come ieri Piero Fassino, oggi vicinissimo all’ex leader Cgil, ha lasciato intendere.

Ma il 4 giugno è prima dei ballottaggi. E la discussione del Nazareno rischia di azzoppare il ritorno alle urne. Soprattutto il finale di partita Roma, dove nelle ultime tornate il secondo turno si gioca sugli elettori più convinti, iscritti e militanti. Nel 2008 Alemanno ha vinto con 90mila voti in meno di quelli che aveva preso al primo turno. Marino dovrà concentrarsi al massimo per guadagnarsi – pur senza formali apparentamenti – i voti di Alfio Marchini (l’amico Caltagirone lo spinge verso Alemanno, la famiglia di tradizioni progressive verso il Pd), di quella parte di M5S che lo guarda con simpatia, e della sinistra sparsa non intercettata dall’alleata Sel e convocata al voto da Sandro Medici. E quella vicina al giurista Stefano Rodotà.

Un’area larga, che Marino vorrebbe riunire per il voto finale, che assomiglia e amplia a sinistra e a destra l’ex alleanza Italia bene comune. E che assomiglia al ’campo largo’ delineato da Goffredo Bettini, uomo molto ascoltato a Roma e pronto a dare battaglia al congresso. Una vittoria in questa formazione sarebbe più di un test: sarebbe un giudizio chiaro sul governo Pd-Pdl. Un inciampo sulla scalata al Campidoglio, invece, aprirebbe scenari balcanici e imprevedibili sulla strada del congresso.