Pochi emendamenti ma capaci – se approvati – di rimaneggiare in profondità il senso della legge delega sul jobs act. E di rimettere in pace il tormentato Pd. Ieri le minoranze dem, dopo una giornata di riunioni che si accavallavano da una camera all’altra, hanno messo nero su bianco le loro proposte. Sette emendamenti, tutti all’art.4 della legge: chiedono la riforma degli ammortizzatori contestuale agli altri provvedimenti con impegni precisi sulle risorse; il disboscamento dei contratti inutili; che il contratto a tempo indeterminato sia più conveniente rispetto agli altri; la conferma del tetto di 5mila euro di reddito all’anno per i voucer; paletti precisi sui controlli dei luoghi di lavoro; la definizione di parametri oggettivi per il demansionamento. Li hanno firmati 35 senatori democratici. «Non siamo una fronda», giura l’ex sottosegretaria Maria Cecilia Guerra, che li ha scritti. Ma 35 è numero ragguardevole: a Palazzo Madama la maggioranza sta in piedi per sei voti. E se Renzi decidesse di non dialogare con la minoranza interna, il rischio del soccorso azzurro è reale. Con tutte le conseguenze politiche del caso.

Di mattina, alla camera, si riunisce la ’war room’ degli anti-jobs act. Formazione ristretta: Fassina, D’Attorre, Damiano, Chiti, Civati, Boccia, Bindi, Chiti, Pollastrini, Fontanelli, Cuperlo. Una riunione operativa per coordinarsi, una volta tanto. «Sul merito della legge», sottolinea Alfredo D’Attorre, «non vogliamo fare il fronte delle opposizioni a Renzi. E dire che vogliamo impallinarlo è una fesseria». La proposta è anzi un mezzo ramoscello di pace: un incontro per preparare il testo da votare tutti insieme alla direzione di lunedì 29. Non c’è Bersani, l’uomo simbolo dello scontro con Renzi. L’ex segretario però a sera si presenta alle telecamere di Dimartedì, su La7 e va giù duro: «Con il mio 25 per cento Renzi sta governando. Io non chiedo riconoscenza ma rispetto». E ancora: «Dall’entourage di Renzi mi vogliono spiegare, a me, come si sta in un partito. Ma vorrei chiedere: dove sta scritto nel programma di cancellare l’articolo 18?»

Nel frattempo, siamo ancora alla mattina, al senato il gruppo Pd incontra il ministro Poletti. Viene descritto in imbarazzo sulle posizioni drastiche del premier. I licenziamenti discriminatori restano, spiega, («Mancherebbe, stanno nella Carta dei diritti dell’uomo del 1948», sbotterà poi Fassina). Sul resto, dice il ministro, «c’è una discussione del Pd» che «guarderà tutte le questioni che sono aperte»». Poletti stringe le spalle: «Questo posso dire io, io faccio il ministro, al resto pensi il segretario del Pd». Alla fine non si vota, e del resto fino alla direzione del Pd non ci sarà nulla da votare o, meglio, ratificare. Così come sembra scontato, al senato, lo slittamento dell’avvio della legge alla prossima settimana. A dopo la direzione, appunto.

A sera l’ultima riunione è quella dell’area riformista. Prepara un documento da portare alla direzione e chiede di discutere il jobs act ma anche la legge di stabilità: «Lì ci dovranno essere i soldi per la riforma degli ammortizzatori, che dovrà essere in ogni caso contestuale agli altri provvedimenti. Ma soprattutto lì c’è il segno della politica economica», spiega Fassina.

Il busillis resta cosa deciderà Renzi. Perché decide lui e solo lui. «Noi abbiamo segnali di apertura da parte di Guerini e di Poletti. Ma anche loro sono appesi a Renzi. Fino a dieci giorni fa le nostre posizioni erano quelle del ministro. Ma poi il presidente del consiglio ha cambiato linea», confida un dirigente di area riformista. Per capire se è pace o se è guerra bisognerà aspettare dunque la fine del viaggio negli Usa, il 26. A quel punto il premier deciderà se asfaltare le minoranze interne. E dar ragione all’ex ministro Sacconi (Ncd) per il quale gli emendamenti della minoranza Pd «sono irricevibili. Noi non li voteremo mai». Ma l’effetto-domino che può portare sulla legislatura, l’allargamento di fatto della maggioranza, è un rischio troppo alto. I dissidenti disposti alla fine a votare contro la legge non saranno tutti quelli che ci sono sulla carta: ma al senato ne basta una manciata per far saltare il banco.

Molto meno rischioso ’concedere’ qualcosa alle minoranze. «Come aveva pensato di fare dall’inizio», spiega un dirigente che ci ha parlato prima della ’bomba art. 18’: «Ha fatto presentare un primo testo indigeribile e molto forzato, proprio per concedere alla sinistra l’illusione di poterlo emendare».