Votato quasi all’unanimità in direzione l’ordine del giorno che colloca il Pd all’opposizione, ultimo tributo al segretario uscente, i dem già si dispongono ad aggiustare la linea. Per attenuare quella che suona come un no preventivo, ovvero un macigno di traverso sulle vie del Colle. «Mai con M5S, mai con la Lega» è il postulato del Pd anche post-renziano. Ma le consultazioni presto o tardi potrebbero prendere un’altra direzione.

GRAZIANO DELRIO, in mattinata su Radiouno, alla domanda ’se Mattarella vi chiedesse di fare il governo’, risponde: «Si valuterà, il presidente della Repubblica ha sempre la nostra massima considerazione». I siti sottolineano il fatto nuovo, un’apertura a un governo istituzionale. Tanto che il ministro deve correggere: «Il senso delle mie parole è stato travisato».

LA VERITÀ È CHE NEL PD si allarga sempre di ora in ora l’area dei «collisti», quelli che spiegano che se Mattarella chiamasse ad un gesto di responsabilità, naturalmente una volta esperite e fallite tutte le altre strade, sarebbe difficile per i dem restare sull’Aventino. E sbagliato. Lo conferma anche Walter Verini a Lineanotte (Raitre): «Facciamo bene a invitare i 5 stelle a prendersi le proprie responsabilità. Ma se il presidente Mattarella rivolgerà un appello a tutte le forze politiche, il Pd non potrà far mancare il suo apporto».

APPORTO. È LA PAROLA CHIAVE che ha consentito l’unanimità sull’ordine del giorno della direzione: che «impegna il Pd all’opposizione come forza di minoranza parlamentare». Ma «garantisce al presidente della Repubblica il proprio apporto nell’interesse generale». Concetto che ammette anche Ettore Rosato, presidente uscente dei deputati Pd: «Al massimo Mattarella potrebbe chiedere a tutti i partiti di fare un governo prima di andare alle elezioni».

PRESTO PER PARLARNE anche per Maurizio Martina, il vicesegretario facente funzioni da «reggente»: «Non abbiamo il diritto di strattonare il presidente della Repubblica», dice a Porta a Porta, «Non credo che sia responsabilità nostra indicare soluzioni di questo tipo. Sto alle cose che il Pd unitariamente ha deciso». Ma appunto il Pd ha deciso che non farà mancare il suo «apporto» a Mattarella.
IERI MARTINA ha annunciato le sue dimissioni da ministro dell’agricoltura. Segno che al Nazareno è stato raggiunto l’accordo fra le correnti sulla sua elezione a segretario alla prossima assemblea nazionale, la cui data però ancora balla (c’è il rischio che coincida le consultazioni del Colle). Lui naturalmente nega: «Se mi candiderò lo vedremo più avanti. Adesso devo fare il lavoro di queste settimane che mi pare già molto tosto». Ma dal Nazareno c’è chi conferma: «Diciamo che Martina investe in quella direzione».

MA NON TUTTI I GIOCHI sono fatti. La minoranza orlandiana non si fida. Martina ha garantito la «gestione collegiale» del partito. Ma a parole. Nei fatti c’è un passaggio cruciale prima di siglare la tregua interna ed è l’elezione dei presidenti dei gruppi di camera e senato. In queste ore i cambi di casacca sono continui, anche se discreti. Ma Renzi ha ancora la sua golden share: al senato può contare su una ventina di senatori sui 57 eletti, alla camera su una trentina di deputati su 112. Ieri circolava l’ok alla coppia Rosato-Marcucci.

DUE RENZIANI, il primo sostenuto dall’ormai universalmente detestata Maria Elena Boschi, il secondo fedelissimo dell’ex leader. Per la minoranza orlandiana è un tandem impotabile: «Se questa fosse la prospettiva il mandato di Martina è fallito». L’alternativa potrebbe essere il tandem Guerini-Richetti: il primo instancabile pontiere interno, il secondo vicino a Delrio, renziano sì, ma insofferente.