Marciare sulle riforme elettorale e costituzionale, per non marcire. La direzione del Pd approva quanto chiede il segretario presidente del Consiglio: si va avanti «senza indugio». Facendo finta che Berlusconi non abbia premuto il freno, che le dimissioni annunciate di Napolitano non abbiano messo in discussione quella «tempistica già prevista» dal patto del Nazareno. Di questo non si parla. Del fatto che l’Italicum riveduto e corretto non sia applicabile, perché lascia il senato scoperto, nemmeno. Persino il trucco del capolista bloccato e preferenze per gli altri non si può mettere in discussione, malgrado una processione di costituzionalisti persino amici abbia spiegato che non passerà il vaglio della Consulta. Niente. Renzi chiede il voto sul suo ordine del giorno «velocista» e respinge anche il tentativo del bersaniano D’Attorre di aggiungerci: «Se possibile affidando al parlamento dei miglioramenti». No. Qui alla direzione non si parla di miglioramenti e per essere chiari neanche di parlamento. Si tratta, come spiega il fedelissimo relatore al disegno di legge costituzionale Fiano, giusto al termine di un appello all’antifascismo, di mettere in riga le minoranze. «Da domani (oggi, ndr) alla camera si votano gli emendamenti alla riforma costituzionale. Non possiamo riaprire una discussione completa. C’è bisogno di unità, alla fine».

Perché alla fine la minoranza del partito dovrà pur votare qualche volta. Ieri in direzione ha fatto il bis del Jobs act, non partecipando alla conta chiesta da Renzi (solo due voti contrari). Non si è votato neanche sull’ordine del giorno proposto dal bersaniano Zoggia, che era partito proponendo un congresso, era passato a chiedere un referendum tra gli iscritti ed era approdato a una «campagna di ascolto nei circoli». Proposta, a quel punto, facilmente assorbita dal presidente della direzione, Orfini. A Renzi interessava rispondere con l’acceleratore a Berlusconi (e a Napolitano) e l’ha fatto. Scivolano come acqua sul marmo le parole di Cuperlo, Zoggia, Fassina, D’Attorre: nove mesi fa e poi sei mesi fa il segretario aveva intimato lo stesso alla direzione: approvare tutto senza modifiche perché altrimenti salta l’accordo con Berlusconi. Poi le modifiche sono arrivate lo stesso, e ai responsabili oppositori interni che non si sono messi di traverso al senato deve aver fatto male sentire Renzi riconoscerne il merito alle richieste dei grillini. Ma adesso il punto, si sforza di spiegare Cuperlo, è sapere se il patto del Nazareno esiste ancora o no. Renzi risponde così: «C’è un sottile confine tra il desiderio di migliorare le riforme e l’intenzione di rompere. Chi propone miglioramenti non condivisi in realtà vuole rompere».

Non partecipare al voto, significa per la minoranza – oltre segnalarne l’assurdità – provare a tenersi un piccolo margine di libertà. Lo usassero potrebbe fare male a Renzi già in commissione, più che sull’Italicum sulla riforma Costituzionale alla camera. Lì i rappresentanti della minoranza sono circa la metà della delegazione Pd (da qui le ansie di Fiano, una sostituzione modello Chiti è improponibile) e hanno presentato emendamenti migliorativi praticamente su tutto. Intanto il senato dei consiglieri regionali come antidoto all’impopolarità delle istituzioni comincia a fare acqua anni prima della sue eventuale introduzione, vedasi il record di astensionismo alle regionali. Ma Renzi è capace di rispondere così all’obiezione: «Fosse per me avrei preferito il senato dei sindaci». Ma bisogna andare avanti.

Quanta voglia abbia di discuterne delle elezioni regionali (tema originario della convocazione), il premier segretario lo chiarisce sfoderando un campionario di prese in giro. Nella sua migliore interpretazione del vecchio dirigente di partito, comincia parlando della «fase», passa all’«analisi del voto» e anzi «di tutta la società italiana», azzarda una «lettura marxiana se non marxista» e cita la vecchia barba e le tesi su Feuerbach come fosse un titolo della Leopolda: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo, adesso dovremmo cambiarlo». Il precipitato emiliano è che l’astensione è colpa della impopolarità della classe politica locale. E analisi finita, malgrado il tentativo di Andrea Ranieri di raccontare delle migliaia e migliaia di elettori e militanti emiliani del Pd che hanno sfilato a Roma con la Cgil «che non hanno votato Sel perché non hanno abbandonato il Pd, ma si sono astenuti perché sono stati abbandonati dal Pd». Ranieri però risulta laureato in filosofia. Goffredo Bettini prova a segnalare che il ritardo nelle tante riforme promesse – certo per colpa della «rezione» degli italici conservatori – qualche peso può aver avuto nella disaffezione, assieme allo stato di disgrazia del partito nei territori. È l’unico tra i sostenitori di Renzi a prendere sul serio le regionali, assieme ad Orfini che propone un discorso serio sulla selezione dei gruppi dirigenti e sul fallimento del modello Emilia. Che fa un po’ a cazzotti con il sostegno entusiasta a Poletti a Roma e Bonacini a Bologna, ma tant’è. Bisogna marciare.