Una vittoria, avvolta da una sconfitta. Anzi, da tre sconfitte assai simboliche che finiscono per condizionare la valutazione dei ballottaggi più della conta generale di tutte le città. Livorno, Perugia e Padova sono tre rovesci pesanti per un partito democratico che solo quindici giorni fa pareva imbattibile e che invece si scopre fragile proprio nelle sue storiche roccaforti – e si potrebbe aggiungere almeno anche Potenza. Segno che le «radici» contano meno e si sta compiendo la mutazione del partito. Secondo Renzi, invece, a cambiare è l’elettorato.

«È finito il tempo in cui qualcuno sa che in quel posto si vince di sicuro», fa sapere il presidente del Consiglio da Hanoi, in Vietnam, dov’è appena arrivato in visita ufficiale. Il voto di ieri, in altre parole, «segna la fine delle rendite di posizione». Quello di Renzi è un tentativo di analisi del risultato elettorale meno banale di quello che i renziani a Roma e in giro per l’Italia avevano immediatamente messo in circolo. In sintesi: davano tutta la colpa alla minoranza del partito. Possibili molti esempi. Dal neo sindaco di Firenze Nardella, secondo il quale «il risultato negativo si è verificato nelle città dove il Pd non si è rinnovato perché in alcune realtà c’è ancora l’anima del vecchio Pd» a un altro toscano, il deputato renziano Gelli che fa notare come «Livorno fu la federazione che alle primarie si manifestò più lontana dai processi di cambiamento, tanto che Renzi ottenne una percentuale molto bassa», alla neoeletta parlamentare europea Moretti, che in quelle primarie era ancora bersaniana e che adesso spiega come «emerge molto chiaramente una riflessione: laddove il Pd è capace di rinnovamento vince, dove non è forte il segnale di discontinuità si perde».

Renzi lascia andare avanti i suoi, ma conferma quel profilo prudente che aveva già mostrato all’indomani della vittoria, quella sì inequivocabile del 25 maggio scorso. Non è da lui che vengono gli attacchi alla minoranza. Anzi dal suo seguito in Vietnam trapela il riconoscimento delle «oggettiva sconfitta» del partito a Livorno. Si ripete così lo schema di qualche giorno fa, quando all’indomani dell’arresto del sindaco di Venezia il più stretto collaboratore di Renzi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Lotti, disse che Orsoni non era un iscritto del partito democratico, per poi essere clamorosamente corretto da Renzi.

Del resto questa è la settimana nella quale il segretario proverà a stringere sui nuovi assetti del partito; il progetto resta quello di includere nella segreteria e alla presidenza dell’assemblea i rappresentanti delle minoranze: bersaniani e giovani turchi almeno, mentre resteranno fuori i civatiani.

«È stata una vittoria e il merito è di tutto il Pd», insistono dunque i colonnelli del segretario. Il vice Guerini offre argomenti numerici – il partito è passato da 15 a 19 capoluoghi amministrati e ha conquistato 160 comuni su 235 – per spostare i riflettori dai «pochi casi in cui il risultato non è stato soddisfacente» all’«abbiamo vinto e il resto sono chiacchiere!». Ma il fatto che sia stata una vittoria mutilata non può non pesare, specie per chi come Renzi è sempre molto attento al «trend» e due settimane fa veniva raccontato come un’imbattibile. Torna sul concetto della fine delle «rendite di posizione» il responsabile enti locali Bonaccini: «Vale anche per gli altri, si vedano le splendide affermazioni al nord come Pavia e Bergamo». Di nuovo: stanno cambiando gli elettori, o è cambiato il Pd?

Di certo lo sforzo unitario si ferma appena gli ultras del segretario passa dalle allusioni al «vecchio Pd» ai nomi: tutti i candidati sconfitti infatti risultano non essere dei renziani propriamente detti. Ruggeri a Livorno, Boccali a Perugia, Rossi a Padova e Tidei a Civitavecchia vengono prontamente ricondotti alle diverse minoranze interne. Cosa che fa reagire Cuperlo («cuperliano» è il candidato sconfitto a Perugia): «Si vince e si perde insieme, a me di come un candidato sindaco si è schierato al congresso non interessa un grammo. E vi giuro che a volte neppure lo so». Mentre Bersani tenta una riflessione più ampia: «Abbiamo in una situazione in cui il Pd è un po’ contro il resto del mondo. A poco a poco non c’è più un bipolarismo ma una specie di tripolarismo e quando gli altri due si ammucchiano sono problemi». Che in fondo è la vecchia posizione di chi continua a preferire la ricerca delle alleanze alla «vocazione maggioritaria». Anche di fronte al 40% delle europee.