La quiete dopo la tempesta. Dopo il mercoledì nero al Nazareno, con la minaccia di dimissioni di Zingaretti stremato per il fuoco amico, ieri sulla sede Pd si è visto un raggio di sole.
Forse perché nessuno, neppure i più critici, desidera un Pd acefalo e nel caos nei primi mesi del governo Draghi, la riunione della direzione- convocata per affrontare la questione femminile esplosa dopo l’assenza di ministre- è andata abbastanza liscia: confronto serrato, sul tema della parità di genere ma anche sulle prospettive del Pd, ma nessun assalto alla diligenza contro il segretario.

Che ha difeso con passione e puntiglio le scelte fatte in questi due anni. Sul tema femminile, ha detto, «c’è stata una ferita ma non siamo all’anno zero, rifiuto l’accusa di insensibilità sulla parità» (e presenta un decalogo di proposte, dai nidi ai salari al cognome materno per i figli alla 194). Orgoglio anche «sulla cancellazione dei decreti Salvini, che non è avvenuta per merito della Provvidenza».

ZINGARETTI HA LANCIATO l’assemblea nazionale di metà marzo come occasione per una «rigenerazione del Pd». E ha ribadito un forte appello all’unità interna: «Se provassimo ogni tanto, anche solo per sbaglio, a non polemizzare su tutto ma a guardare le cose concrete, si capirebbe quale è il Pd che serve: una forza riformista, con contenuti chiari a vocazione maggioritaria ma che costruisce le alleanze e i numeri per vincere, non vive di sola testimonianza».

Parole che hanno fatto saltare sulla sedia Valeria Fedeli, dell’area riformista: «La relazione mi ha stupito positivamente: prima l’identità del Pd e poi le alleanze. Se Nicola vuole una discussione politica vera troverà interlocutori attenti, ne abbiamo bisogno».

Zingaretti prosegue: «Nei prossimi mesi sarà tutto molto più complesso dei mesi passati, ma se dovremo combattere lo faremo: ora l’unità è 100 volte più necessaria per evitare di implodere». Un’ultima chiamata a una discussione non astiosa, «da amici e non da avversari», come ha ricordato Luigi Zanda rinnovando la sua fiducia «piena» al segretario «per il modo con cui ha guidato il partito, per la cura e la sensibilità politica e personale con cui lo ha fatto».

UN’ULTIMA CHIAMATA di Zingaretti ai suoi avversari interni per dire che, se si vuole discutere, lui c’è e dall’assemblea di marzo si avvierà un percorso per rafforzare l’identità del Pd. Se invece l’obiettivo è solo logorarlo col fuoco amico su tutto, lui non è disponibile. E proprio di «logoramento» ha parlato ieri mattina alla Nazione il vice Andrea Orlando, attaccando gli ex renziani: «Rigurgiti di posizioni che guardano a un Pd del passato, improntato verso un centrismo non più al passo coi tempi». «Insegue delle ombre», la risposta di Andrea Marcucci, uno dei capofila della minoranza interna. «Non è accettabile che chi ha contribuito a fondare il Pd venga rinchiuso nella definizione di una ridotta renziana», il mood dei riformisti.

IN DIREZIONE, OLTRE A ZANDA, hanno difeso Zingaretti anche Roberta Pinotti Anna Rossomando, Barbara Pollastrini, Paola De Micheli («Durante la crisi c’era chi di giorno si conformava e di notte tramava»). Molto più critiche le giovani Chiara Gribaudo (area Orfini) e Marianna Madia. Discussione aggiornata a lunedì.

Zingaretti non ha parlato dell’ipotesi di dimissioni. E il suo discorso è parso dominato dalla volontà di rilancio. Ma la crisi non è risolta. «La turbolenza in parte è rientrata, hanno capito che se il Pd entra nel caos anche il governo ne risente, ma le dimissioni di Nicola non sono ancora sparite dal tavolo», spiega una fonte del Nazareno. Tradotto: si prende un supplemento di riflessione per vedere se ci sarà un reale «cambio di passo» nei rapporti interni.

DI CERTO C’È CHE, a parte Franceschini, anche vari sponsor di Zingaretti (oltre a Bettini) spingono per un congresso in autunno: lo ha detto Zanda («Serve un congresso per una prospettiva di lungo periodo») e da sinistra lo pensa anche l’ex ministro Giuseppe Provenzano: «Vedo un grande affollamento al centro, nel favoloso mondo moderato. Bisogna invece ridefinire il ruolo delle sinistra, e non bastano le primarie per farlo».

SULLO SFONDO L’ATTACCO di Base riformista a Orlando, accusato per il doppio ruolo di vicesegretario e di ministro. «Io da ministro mi dimisi dalla segreteria», ricorda De Micheli. Difficile però che l’eventuale passo indietro basti a calmare le acque. La partita si gioca sull’identità del Pd, sul tasso di sinistra. E sarà dura.