La legge elettorale arriverà nell’aula del Senato, salvo improbabilissime sorprese, lunedì 22. Ci arriverà senza relatore e senza che la commissione abbia di fatto neppure iniziato a votare. L’annuncio ufficiale ancora non c’è: a modificare il calendario dovrà provvedere la conferenza dei capigruppo di domani, ma la decisione di Matteo Renzi è già presa e la paralisi dei lavori in commissione, ieri, lo conferma.

Quella del velocista non è una corsa contro il tempo ma, più prosaicamente, contro le dimissioni del presidente della Repubblica. Quando Napolitano ufficializzerà l’addio i giochi si congeleranno all’istante. Di conseguenza, come Renzi ha detto ieri mattina ai senatori democratici riuniti, la riforma deve essere approvata prima dell’elezione del nuovo capo dello Stato. Fi la pensa all’opposto, e anche loro, gli azzurri, lo hanno detto chiaro, nella conferenza dei capigruppo della Camera in cui si discutevano i tempi della riforma costituzionale: «Tutte le riforme vanno posticipate alla nomina del successore» di re Giorgio.

Renzi non vuole arrivare a quella scadenza con il tavolo della riforma elettorale ancora aperto per le stesse ragioni per cui invece Berlusconi ci tiene tanto: l’intreccio aumenterebbe il peso contrattuale degli azzurri. In realtà, diecimila e passa emendamenti, neppure l’incardinamento in aula il 22 e 23 dicembre, col voto sulle pregiudiziali di costituzionalità, basterebbe a garantire il varo della legge prima dell’addio di Napolitano, se questo, come previsto, arrivasse davvero a metà gennaio. Il premier potrebbe invece farcela se slittasse a fine gennaio. Forse la scelta di premere l’acceleratore a tavoletta serve proprio a offrire un argomento al presidente giovane per convincere quello anziano a posticipare: «Ormai ci siamo, questione di giorni e cosa sono a questo punto due settimane in più?».

Dietro la fretta del governo sembra naturalmente esserci un motivo in più, oltre alla necessità di nominare il premio. Ai dubbi di molti dà voce la presidente dei senatori di Sel-Gruppo misto Loredana De Petris: «La forzatura ha una sola spiegazione logica: governo e Pd vogliono essere pronti a imporre le elezioni anticipate». In realtà potrebbe esserci un ulteriore calcolo dietro la corsa di Renzi. A metà gennaio potrebbe arrivare un verdetto negativo europeo sulla manovra italiana: quello sì che metterebbe il premier nelle mani degli azzurri e moltiplicherebbe esponenzialmente la loro forza contrattuale. Quali che siano le ragioni che spingono Renzi, di certo la scelta di forzare i tempi è già stata presa. «Se Fi fa melina, noi andiamo avanti da soli», faceva sapere ieri sera, informalmente ma con termini netti, la segreteria Pd.

I tempi dell’approvazione della legge non sono il solo scoglio, e forse neppure il più insidioso. Ci sono altri due motivi di frizione tra Pd e Fi, nessuno dei quali, peraltro, riguarda il merito della riforma, del quale a nessuno sembra importare più che tanto e basterebbe questo a dire tutto sullo stato del Paese. Da quel punto di vista, è già tutto o quasi concluso. I punti deboli sono invece la data in cui l’Italicum entrerebbe in vigore e la «norma ponte» con la quale si voterebbe se la legislatura naufragasse prima di quella stessa data. Ieri mattina l’intesa sembrava raggiunta, e Renzi quasi l’aveva anticipata nell’incontro con i suoi senatori: nessuna norma ponte, né consultellum né mattarellum (ma è chiaro che se le elezioni diventassero inevitabili, prima di giocarsela a testa o croce, non si potrebbe fare altro che usare il consultellum) e, quanto alla data di entrata in vigore dell’Italicum un generico «nel 2016».
Già ma in quale mese del 2016? E’ su questo particolare che l’accordo si è arenato. Renzi vuole gennaio, Fi giugno o settembre. Non è un particolare: fissare giugno o settembre vorrebbe dire non poter votare prima del 2017. Su questi due punti, che corrispondono ad altrettanti emendamenti, non è in corso solo un braccio di ferro tra i soci del Nazareno ma anche nel gruppo di testa azzurro. Il capo dei senatori Romani è per non cedere: «Altrimenti non tengo più il gruppo». L’eterno Verdini è di parere opposto: «Perché impuntarsi? Renzi non ha interesse a fregarci». Sarà proprio Verdini a cercare di risolvere il guaio, oggi a quattr’occhi con l’amico e concittadino Matteo.

Alla Camera le stesse tensioni si riflettono sul percorso della riforma istituzionale. Gli emendamenti a disposizione di ogni gruppo sono stati aumentati del 15%, con tempi contingentati a 80 ore. Ma per Renzi è fondamentale il sì «entro il 31 gennaio», per i forzisti invece bisognerà attendere il nuovo capo dello Stato.