Il Pd è un partito «sbagliato», nato male, cresciuto peggio, destinato a concludere la sua parabola. In che modo lo vedremo presto. Lo si può ben cogliere nelle vicende di questi giorni.

Molti sembrano scandalizzati o infieriscono con toni moralisti: ma come, una scissione per una questione di calendario? In realtà, dietro tale questione, emerge il problema di fondo di questo partito, l’idea e il modello di partito che ne ha segnato le origini, e che ne sta segnando la fine.

Si parla di «congresso»: ma in realtà lo statuto del partito non usa nemmeno questa espressione, e non prevede quel processo democratico di confronto, dibattito interno e poi decisioni, cui si pensa normalmente quando si parla di un congresso.

Del resto, la cosa fu apertamente teorizzata a suo tempo: «Ma nel nostro Statuto il congresso non c’è», si leggeva in un’intervista a Salvatore Vassallo (Corriere della Sera, 28 gennaio 2009). Quello che c’è, come recita il titolo di un articolo dello Statuto stesso, è un’altra cosa: una «scelta dell’indirizzo politico mediante elezione diretta del Segretario e dell’Assemblea nazionale». E’ qui la tara originaria, l’imprinting presidenzialistico e leaderistico che ha segnato la vita del Pd (su cui, ad onor del vero, nella prima fase della sua segreteria, Bersani tentò di intervenire, senza riuscirci).

Per comprendere la posta in gioco, nello scontro in corso, occorre dunque ricordare cosa prevede questo micidiale e distruttivo congegno: tutto si gioca sulle candidature, formalmente legate ad una piattaforma.

In una prima fase, agli iscritti spetta un solo, miserrimo compito: scremare le candidature, fino a ridurle (a certe condizioni) ad un massimo di tre. Poi si va alle primarie «aperte», ed entrano in gioco gli elettori. Nelle altre occasioni, un percorso durato circa sei mesi.

Ebbene, se queste sono le regole, la questione del calendario è una questione molto seria, su cui è sbagliato ironizzare.

Il problema è molto semplice: non c’è più propriamente un «corpo» del partito, alla fine vince chi riesce ad attivare la migliore circolazione «extra-corporea», ossia mobilitare risorse esterne al partito.

E qui entra in gioco l’analisi di quanto accaduto in questi anni: hanno perfettamente ragione quanti dicono che «la scissione c’è già stata».

Non si hanno dati precisi, ma decine, forse centinaia di migliaia, di iscritti se ne sono andati (del resto, cosa serve avere una tessera, se poi conta soprattutto la «gazebata» finale?).

Anche molti elettori se ne sono andati.

Le attuali minoranze del Pd sono prive, al momento, di una reale forza da spendere in questo scontro: l’unica possibilità che hanno è quello di provare a ri-mobilitare quella schiera di iscritti e di elettori che hanno abbandonato il partito in questi anni.

È un’impresa per certi versi disperata, ma che avrebbe comunque bisogno di alcuni mesi di tempo, per risultare credibile, suscitare una qualche speranza, e tentare di convincere quel popolo della sinistra che ricorda oggi un «volgo disperso», per dirla con Manzoni.

È vero che, grazie soprattutto al referendum, Renzi potrebbe aver perso una parte delle sue capacità espansive, e che, per altro verso, l’esito del referendum ha segnato una significativa ripresa di attività e di coraggio di una parte di quel popolo. Ma è un’impresa comunque ardua, perché il Pd renziano, in tutti questi anni, ha prodotto una rottura profonda: una radicale disconnessione sentimentale.

È davvero arduo pensare che tanta gente possa tornare ad appassionarsi alle sorti del Pd e dare una mano ai candidati delle minoranze.

Per questo, la partita che si sta giocando in queste ore è un gioco a somma zero, e siamo ad una stretta in cui comunque si impongono decisioni irreversibili.

Se le minoranze accettano di entrare in un percorso congressuale, tanto più se accelerato, rischiano di trovarsi dentro una trappola mortale.

Ma, per motivare adeguatamente una scissione, occorre fare emergere i veri nodi che si celano dietro la questione dei tempi.

Renzi vuole portare alle estreme conseguenze la logica che ne ha sempre guidato l’azione: una logica di clan, di tribù, intrinsecamente divisiva e proprietaria, incapace di concepire l’idea stessa di un partito come corpo collettivo, fondato sulla partecipazione democratica degli iscritti ed anche sulla mediazione all’interno dei gruppi dirigenti (una dimensione essenziale nella vita di un partito, che Renzi evoca in modo sprezzante e populista con l’immagine dei «caminetti»).

Ma occorre soprattutto fare emergere anche il tema di fondo: l’Italia non può non avere una sinistra, non può dilapidare l’eredità della storia del movimento operaio, socialista e comunista.

Ad una domanda, su cosa di «nuovo» potesse portare la sua candidatura alla guida della Spd, qualche giorno fa Martin Schulz ha risposto: «Nulla, la Spd da 150 anni dice le stesse cose».

Forse ha esagerato, ma recuperare l’orgoglio e la dignità di una storia, ecco, questa è forse la vera posta in gioco, e il primo passo da fare.