La fiducia sul jobs act alla camera per Renzi «è un’ipotesi». Un’ipotesi che assomiglia a un avvertimento all’indirizzo delle minoranze Pd. Il premier, per niente preoccupato dalle accuse di aver stroncato il dibattito al senato, detta le regole anche ai deputati: «Se fanno velocemente non ci sarà bisogno della fiducia». Altrimenti. E stavolta non c’è un vertice europeo da omaggiare. Stavolta la compressione del dibattito sarebbe un gesto di forza mezzo gratuito, al non fondamentale scopo di evitare il ritorno al senato della legge delega.

La sinistra Pd capisce l’antifona e prova a fare uno sbarramento preventivo. Per Gianni Cuperlo «è stata una forzatura porre la questione di fiducia al senato. Io mi auguro con tutte le forze che alla camera non si percorra la stessa strada». Preferisce non credere all’ipotesi della fiducia anche Alfredo D’Attorre: «La legge delega avrà un suo iter, prima di passare all’aula dovrà essere esaminata dalla commissione lavoro. Escludo che tutto questo percorso poi possa finire con un voto di fiducia sul vecchio testo. In quel caso si porrebbe un serio problema di rapporti fra governo e parlamento. Non si può praticare un presidenzialismo de facto e privo di contrappesi. Infatti non credo che andrà così».

Ma nelle minoranze Pd l’ottimismo è ormai moneta fuori corso. Giovedì prossimo il gruppo del senato affronterà il caso Tocci, che già si avvia al lieto fine, e l’assai più triste caso dei tre dissidenti (Casson, Ricchiuti, Mineo) che non hanno votato la fiducia. Formalmente nessuno propone l’espulsione. «Non possiamo accettare il pensiero unico in un partito del 40 per cento, bisogna rispettare chi non la pensa come te», ammette Renzi, «ma in certi momenti, come quando c’è in ballo la fiducia, bisogna viaggiare insieme». Conclusione: la vicenda non sarà archiviata senza conseguenze.

E questo è l’altro avviso ai deputati della sinistra interna. Le prossime due saranno settimane complicate anche dal dissenso sulla legge di stabilità. La data simbolica per la resa dei conti finale nel Pd sarà il 25 ottobre. I renziani – della prima seconda o terza ora – si metteranno in fila a Firenze, alla a corte della Leopolda. La minoranza Pd invece andrà alla manifestazione della Cgil. Dopo Fassina e D’Attorre, ieri anche Cuperlo ha annunciato la presenza al corteo: «È una manifestazione che ha delle giustificazioni oggettive, quando migliaia di lavoratori manifestano, la sinistra ha il dovere di ascoltarli».

Ma il fatto è che la piattaforma della manifestazione sarà tutta contro il jobs act del governo. Tant’è che la segretaria dello Spi Carla Cantone, già candidata alle primarie con Bersani e di solito fedele all’ex segretario, ieri ha aperto il fuoco amico: «Quelli della minoranza Pd devono mettersi d’accordo con se stessi. Non puoi dire che non sei d’accordo con le scelte del governo e poi votare la fiducia. Non è coerente. Allora è meglio stare zitti, che si fa una figura migliore». A Corso d’Italia in realtà la pensano diversamente: una presenza di area democratica ’resistente’ in piazza sarebbe la benvenuta.

Al Nazareno però c’è chi non aspetta altro che di vedere Fassina, Cuperlo e magari persino Bersani – che da segretario ha per lo più evitato le manifestazioni sindacali – ad un corteo contro l’esecutivo. Così rinnovando i fasti del governo dell’Unione, quando nell’ottobre 2007 la sinistra organizzò una piazza contro la riforma del welfare di Prodi, che pure appoggiava. Di lì a tre mesi il governo cadde e si tornò al voto.