Nessuna analisi del voto condivisa. Nessuna spiegazione comune del tracollo elettorale del 25 settembre. Eppure nel Pd è già partita, più affollata che mai, la corsa alla successione di Enrico Letta, che ha annunciato a botta calda di voler lasciare la segreteria dopo il congresso che si terrà a inizio 2023.

LE TANTE TRIBÙ di cui è composto il Pd già scalciano per le candidature. E anche per le poche postazioni di potere rimaste: i capigruppo alle Camere, le vicepresidenze di Montecitorio e palazzo Madama, la guida degli organismi parlamentari di garanzia come il Copasir e la Vigilanza Rai. Come se non fosse successo nulla nelle urne. A parole, le dimensioni della sconfitta sono sulla bocca di tutti.

E infatti si sprecano le dichiarazioni di chi vuole «rifondare» il Pd, «rigenerarlo», azzerare le correnti e ripartire riverginati verso le prossime scadenze elettorali. Tutti, a parole, sembrano aver capito che il partito è stato troppo governista, troppo distante dalla sofferenza sociale, dal mondo del lavoro, dalle periferie. Ma sono parole di superficie, pronunciate dagli stessi dirigenti che hanno fatto parte del governo Draghi, o lo hanno esaltato, o non hanno preferito parola contro la linea iperbellicista di Letta o sul divorzio dai 5S.

UNO DEI POCHI PRUDENTI è il vicesegretario Peppe Provenzano: «È stata una sconfitta profonda, che fa male. Questi sono i giorni della riflessione, almeno per me. Presto, bisognerà riprendere il cammino. Perché siamo stati sconfitti, ma non siamo vinti…». «Il problema di fondo è che non è più chiaro a nessuno quale sia la missione del Pd», scrive Matteo Orfini. «Possiamo risolverla con le scorciatoie, come sempre. E dire che è colpa delle correnti, che bisogna ripartire da questo o da quel leader, o dai sindaci, dai territori, dalle periferie. Fuffa. Il tema è la politica, cosa vogliamo essere, non con chi ci vorremmo alleare».

TANTI I PAPABILI PER LA segreteria. Quasi tutti emiliani. C’è il governatore Stefano Bonaccini, pronto da almeno due anni, che esulta per i risultati nella sua regione rimasta rossa. E poi la sua vice, fresca di elezione alla Camera, Elly Schlein, che piace a Letta. Di ieri l’autocandidatura dell’ex ministra Paola De Micheli, di Piacenza: «Voglio puntare sui militanti, troppo spesso dimenticati, quando non umiliati, e sulla definizione della nostra identità».

C’è anche il sindaco di Pesaro Matteo Ricci: «Sento la responsabilità, come tutti, di non potermi sottrarre». Ricci parla di «fase costituente», spiega che «dovremo andare oltre il Pd». Poi c’è il suo collega di Firenze Dario Nardella, già renziano: «La cosa prioritaria è cambiare il Pd, prima che il segretario. Dobbiamo avviare un processo profondo di ricostruzione da zero». Anche lui gioisce per i risultati nella sua città: «A Firenze abbiamo vinto non perché la città è storicamente è di sinistra, anzi. Ma perché abbiamo lavorato sulle periferie». Anche il primo cittadino di Bari Antonio Decaro è tra i papabili, e parte scagliandosi contro le correnti interne.

UNO DEI PIÙ LUCIDI è Goffredo Bettini: «Dopo 20 anni il Pd ha bisogno di un tagliando generale. Abbiamo subito troppo i miti del liberismo e il fascino dei tecnici, dei tecnocrati, dei governisti a tutti i costi. Per questo, è sbagliato gettarci in un improvvisato, superficiale e ipocrita gioco sui nomi e gli organigrammi», spiega in una intervista al Fatto.

E dice no a un nuovo segretario «scelto dai gruppi editoriali e dal salotto italiano che hanno contribuito alla nostra sconfitta». «Serve una persona di sostanza più che di immagine. Formata sul campo, piuttosto che inventata dai media», dice Bettini. Le sue parole suonano come uno stop a Schlein.

ANDREA ORLANDO, un altro dei potenziali concorrenti, critica l’adesione all’agenda Draghi: «L’evocazione delle agende è un modo, sin dai tempi di Monti, di supplire a una difficoltà identitaria». Il ministro del Lavoro, parlando con Huffington Post, evoca una nuova Epinay, citando il congresso della rinascita dei socialisti francesi nel 1971. «Siamo vicini a un punto di non ritorno, serve una grande costituente. Mitterand chiamò intellettuali, forze sindacali, associazioni, volontariato, non ci fu un plebiscito sulla leadership».

«Dobbiamo radicalmente rifare il Pd», avverte Pierfranceso Majorino. «Con più attenzione verso la questione sociale e il lavoro». «La nostra ossessione deve essere ricostruire un rapporto con chi ha paura, chi soffre la crisi economica, chi si sente solo», sintetizza Marco Sarracino, 33 anni, appena eletto alla Camera.