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Pd e Cinque Stelle: un altro scambio di ceffoni tra alleati sul Ddl Lavoro

Pd e Cinque Stelle: un altro scambio di ceffoni tra alleati sul Ddl LavoroIl capogruppo del M5s Silvestri durante la discussione sul Ddi Lavoro alla Camera – Ansa

Il caso Dopo la spaccatura sul consiglio di amministrazione della Rai, la polemica prosegue alla Camera. Pd resta in aula, i Cinque Stelle escono contro la decisione della maggioranza di cassare gli emendamenti sul Ddl lavoro che aumenta la precarietà

Pubblicato circa 4 ore faEdizione del 27 settembre 2024

Come una fisarmonica. Dopo la spaccatura sulle nomine dei consiglieri Rai il campo largo delle opposizioni si è ristretto anche sul disegno di legge «lavoro» in discussione alla Camera. Tutto è iniziato quando la maggioranza ha dichiarato inammissibili 53 emendamenti essenzialmente per mancanza di coperture finanziarie. Le stesse proposte erano state invece ammesse al dibattito in aula dalle Commissioni lavoro e bilancio dove si è trascinato il dibattito su un testo – chiamato «Collegato lavoro» – abbandonato dal governo dal maggio 2023 quando fu presentato insieme al «Decreto primo maggio». Quello che, tra l’altro, ha abolito e modificato il cosiddetto «reddito di cittadinanza».

LA PRIMA FRIZIONE tra Pd e Cinque Stelle è stata avvertita sul modo di stare, e non stare, in aula. Dopo il blitz della maggioranza, infatti, i Cinque Stelle hanno deciso di lasciarla aumentando i decibel della polemica. Il Pd invece è rimasto. A quel punto sono stati fatti filtrare commenti al vetriolo, segno di una forte tensione osservata nel frattempo anche in aula. «Quando si tratta di ottenere poltrone in Rai, sempre presenti per votare – hanno fatto sapere quelli del Pd contro i Cinque Stelle – Quando invece non si parla di poltrone si abbandona l’aula».

LO STESSO PENSIERO polemico è stato messo in parole nel frattempo da Davide Faraone, deputato renziano di Italia Viva, nel suo intervento. «Facce di bronzo – ha detto Faraone in maniera non proprio amichevole ai Cinque Stelle – Quando dovevano assentarsi dall’aula e rispettare gli impegni con l’opposizione di non partecipare al voto del Cda Rai si sono presentati e hanno pure preso il consigliere d’amministrazione. Quando avremmo dovuto lavorare, hanno abbandonato l’aula per camuffare il loro consociativismo».

ALLE ORECCHIE SENSIBILI dei Cinque Stelle questa critica è sembrata un’offesa sanguinaria, oltre che la dimostrazione iperbolica che ormai il Pd di Elly Schlein se la fa con il reprobo Renzi che si è di recente riscoperto di «centrosinistra». In quel momento, tra fonti coperte e dichiarazioni pubbliche, è iniziato il cannoneggiamento contro il Pd. «Il Pd usa le stesse parole di Faraone in aula – è stato detto sibilando veleno – Non vorremmo che, dopo la Rai, anche sul lavoro il Pd si faccia dettare la linea da Renzi». Renzi, l’autore incancellabile del Jobs Act. Lo stesso contro il quale la Cgil ha lanciato un referendum che è stato firmato da Schlein e Giuseppe Conte, tra gli altri.

TROPPO TARDI. Gli ultimi argini alle polemiche erano già saltati, nonostante il fatto che sul Ddl lavoro Pd e Cinque Stelle continuino ad avere le stesse posizioni critiche. «Basito» per le dichiarazioni implicite del Pd si è detto il vice-capogruppo M5S alla Camera Agostino Santillo: «Se abbiamo abbandonato l’aula – ha detto – il motivo è uno soltanto: l’inammissibilità dell’emendamento sul salario minimo, che la maggioranza non ha avuto la faccia di bocciare in aula trincerandosi dietro a strampalate motivazioni di natura tecnica. Un fatto di coerenza. Avrebbero dovuto farlo anche il Pd e invece li abbiamo visti fare spallucce e restare seduti al loro posto. Insomma, non pago il Pd spacca anche il fronte sul salario minimo».

LO SCAMBIO DI CEFFONI tra alleati ha in realtà oscurato un risultato tattico ottenuto dopo il duro confronto che li ha contrapposti alla manovra d’aula della maggioranza. il presidente della Camera Lorenzo Fontana ha riaperto i termini oggi a mezzogiorno per la presentazione di una decina di emendamenti (5 a firma Pd, 4 Cinque Stelle, uno Alleanza Verdi Sinistra). È stata la dimostrazione che qualcosa non andava nella decisione di cassarli. Decisione, quella di Fontana, poco consueta nelle prassi parlamentari.

UNA VOLTA INCASSATO il risultato, ciascuno ha evidenziato il proprio merito. Il Pd, con il capogruppo in commissione lavoro alla Camera Arturo Scotto, lo ha rivendicato «nel giorno in cui è stato raggiunto il quorum delle firme sulla nostra legge di iniziativa popolare sul salario minimo». Così hanno fatto i Cinque Stelle: «Il nostro atteggiamento era sensato ai fini di un raggiungimento di un accordo che riporta una dignità parlamentare a questo dibattito» ha osservato il capogruppo M5s Francesco Silvestri che ha ringraziato Fontana «per il suo ruolo assolutamente determinante in questa vicenda».

TRA LE DIVISIONI tra alleati, si è infilato il presidente della Commissione lavoro della Camera Walter Rizzetto di Fratelli d’Italia secondo il quale quella di ieri è stata «la plastica fotografia di come non esista alcun campo largo, qualora ci fosse ancora bisogno di ribadirlo. Al contrario avrebbero fatto una battaglia unitaria. Nemmeno sui temi del lavoro l’opposizione è unita».

GLI EMENDAMENTI ripresentati saranno con ogni probabilità bocciati da martedì quando ricomincerà il dibattito. Tutto questo ha fatto passare in secondo piano i contenuti del «Ddl lavoro» e, in particolare, una delle misure più contestate dalle opposizioni in commissione: l’allargamento dei contratti di somministrazione. Dunque, più precarietà.

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