A 48 ore dalla chiusura dei gazebo ieri il Nazareno non aveva ancora fornito i dati ufficiali delle primarie di domenica. Arriveranno solo oggi, annuncia Lorenzo Guerini, ex vicesegretario Pd ora avviato verso la responsabilità dell’organizzazione. Saranno simili a quelli circolati informalmente in queste ore, giura. Ovvero: Matteo Renzi raggiunge il 70 per cento, Andrea Orlando sfiora ma non acciuffa il 20 (19,5), Michele Emiliano è al 10,5. Le minoranze restano al di sotto del risultato delle primarie 2013, quando Cuperlo e Civati insieme capitalizzarono il 33 per cento dei consensi contro il 67,5 di Renzi. Nel frattempo la minoranza bersaniana e quella di Civati hanno lasciato il partito.

MA I CONTI NON TORNANO. Il comitato del Guardasigilli sostiene di avere dati un po’ diversi. «Noi diciamo che Orlando è al 22 virgola qualcosa, Renzi al 69 e qualcosa, ed Emiliano quel che resta. Ci sono due versioni», dice la portavoce della mozione Sandra Zampa.

La differenza di tre punti sembrerebbe insignificante. Tuttavia allungherebbe un’ombra di sospetto sul fatto che, subito dopo lo scrutinio, al Nazareno qualcuno si sia divertito a ridurre Orlando sotto la soglia ’psicologica’ del 20 per cento. Alla fine è lo stesso Guardasigilli a chiudere la polemica: «Mi pare che i rapporti di forza siano definiti».

LA MINORANZA INSOMMA SI È PESATA. Ora passa all’analisi dell’affluenza ai gazebo: ottocentomila voti in meno del 2013. Renzi vince o stravince in tutte le regioni (tranne in Puglia), in particolare in quelle rosse. Dove però crolla l’affluenza, segno evidente che molti dissenzienti hanno lasciato il partito. Nella sua Toscana prende il 79,12%,ma dai 393mila del 2013 si passa ai 210mila di domenica. In Emilia-Romagna Renzi è al 74%, ma gli elettori scendono da 415mila del 2013 a 216.220. Stesso trend nelle Marche e in Umbria. Nel Nord diminuiscono i votanti, al Sud crescono per «l’effetto Emiliano».
Insomma, dietro il successo del voto nei gazebo, lo stato del partito reale e dei suoi simpatizzanti, affiora. Ed è assai meno in salute di quello che i renziani tendono a raccontare.

MA LA VERA OFFENSIVA della minoranza nelle prossime ore sarà sull’alleanza di centrosinistra. Renzi prepara la sua proposta di legge elettorale e la proposta politica del suo secondo mandato (durerà, in teoria, fino al 2021) per l’assemblea nazionale di domenica prossima. Una delle sue parole d’ordine sarà «stabilità»: ha archiviato la velleità di portare il paese a elezioni anticipate. Né poteva essere diversamente perché, anche permettendo di approvare rapidamente una legge elettorale, fra estate e sessione di bilancio il voto nei prossimi mesi è impraticabile.

La minoranza a sua volta si prepara. Non praticherà lo «stile Ditta», quello del logoramento del leader tema per tema. Lo auspica Nicola Zingaretti : «Ora è il tempo della lealtà, spero che sia la maggioranza che la minoranza non ripropongano un confronto povero e paralizzante segnato dalle ripicche, dai risentimenti e dai conflitti inutili». Lo consiglia Goffredo Bettini: niente code congressuali «stizzite», «Renzi ora si trova di fronte ad un bivio: allargare il campo delle forze all’interno per un Pd plurale ed unire all’esterno il centrosinistra; oppure puntare ad una prova di forza solitaria del Pd in uno scontro campale con Grillo, per vincere e costruire dopo le elezioni un governo in parlamento».

E SARÀ QUESTO IL VERO PUNTO su cui la neominoranza orlandiana batterà senza tregua. «La mia piattaforma», spiega il Guardasigilli, «è una spinta per continuare ad andare nella direzione che ritengo utile per il Pd: costruire un centrosinistra largo, aperto, inclusivo e in grado di parlare a tutta la società italiana».

FUORI DAL PARTITO l’alleato potenziale Giuliano Pisapia la pensa nello stesso modo: «Io voglio riformare un centrosinistra unito com’era l’Ulivo. Se questo non è possibile allora faremo un centrosinistra alternativo fuori dal Pd», dice a Otto e mezzo su La7. Poi però avverte anche i suoi possibili alleati a sinistra: se da una parte difende Massimo D’Alema dal veto di Renzi, dall’altra lo critica: «Andarsene è stato uno sbaglio enorme, i cittadini non lo hanno capito perché hanno fatto la scissione dopo avere fatto le leggi che hanno votato». Lui, Pisapia, è pronto a fare il «federatore». Ma non di un fronte di ex: «Se fosse un partito di scissionisti non mi candiderei, se fosse un campo largo allora ci posso pensare».

«SE L’IPOTESI PISAPIA, nei termini in cui la espone l’ex sindaco di Milano, si consolidasse nei prossimi mesi, difficilmente Renzi potrebbe dire di no», spiega un dirigente di rango rimasto fuori dalla mischia delle primarie. E la consapevolezza che questa scelta per Renzi, nonostante la vittoria ai gazebo, potrebbe essere un vero boomerang ora comincia a circolare anche nella Ditta bersaniana: «Per noi il Pd resta un interlocutore fondamentale, con cui costruire un’alleanza per combattere le destre e il M5s», spiega Enrico Rossi, «Renzi ho visto che risponde di no, ma su questo tema insisteremo».