70,01% a Renzi, 19,50% a Orlando e 10,49% a Emiliano. Sono queste le percentuali ufficiali delle primarie del Pd di domenica scorsa. Il segretario uscente è rientrato grazie a 1 milione e 200mila preferenze, che sono più o meno quelle che aveva raccolto quando sfidò Bersani nel 2012, finendo nettamente sconfitto. Questa volta, grazie al calo dei votanti – un dimezzamento in alcune regioni (Veneto, Emilia, Toscana, Marche) – per Renzi è stato un trionfo.

FINO A SERA ieri mancavano dati ufficiali, conseguenza delle proteste degli orlandiani. Resta in forse il conteggio dei voti in Campania, dove la procura di Napoli ha aperto un fascicolo sulle denunce di brogli nei gazebo di Ercolano (migranti portati a votare Renzi, secondo le accuse documentate in video da Fanpage), ma ci sono anche altri ricorsi da parte dei sostenitori di Orlando (Caserta, Baronissi).

Nel frattempo apre scenari preoccupanti per il Pd il rapporto tra i voti raccolti alle ultime elezioni politiche – 2008 e 2013 – e il numero di partecipanti alle primarie nell’anno precedente. Rapporto che è rimasto più o meno costante.

Le primarie che si possono prendere a riferimento sono quelle dell’ottobre 2007, quando Veltroni vinse su Bindi e Letta, e del dicembre 2012 quando si svolse il secondo turno delle primarie di coalizione, ma che a quel punto erano ristrette a due candidati del Pd: Bersani e Renzi.

Per ogni elettore registratosi alle primarie, il Pd ne raccolse poco più di tre nei seggi veri l’anno seguente. Per la precisione per ogni partecipante alle primarie del 2007 il Pd ha raccolto 3,4 voti nel 2008, quando Veltroni portò il partito da solo a contare 12 milioni di elettori (ma fu sconfitto dalla coalizione di Berlusconi). E 3,1 elettori «veri» nel 2013 (quando il Pd di Bersani si fermò a 8 milioni e 646mila voti né vincendo né perdendo) rispetto alle primarie del 2012.

NON È IRRAGIONEVOLE ipotizzare una continuità in questo rapporto. E allora il milione e 848mila elettori di domenica potrebbe trasformarsi nel 2018 in 5 milioni e 730mila voti veri per il Pd (scenario peggiore) o in 6 milioni e 285mila (scenario migliore).

In ogni caso, un’emorragia di consensi.

La previsione non cambia troppo neanche volendo prendere in considerazione il tasso di trasformazione dei voti alle primarie in voti «veri» tra il 2013 e il 2014, cioè i due momenti del trionfo di Renzi: le primarie della vittoria su Bersani e le successive elezioni europee. Allora per ogni elettore alle primarie si presentarono effettivamente alle urne 3,9 elettori Pd, il che significa che il milione e ottocentomila di adesso potrebbe trasformarsi, al massimo, in 7 milioni e 300mila voti veri.

Ma è un paragone forzato sia per il tipo di elezione (europee rispetto alle politiche) sia per il momento politico (era l’alba del renzismo). Lo citiamo come conferma che, anche volendo fare le ipotesi migliori per il Pd, le previsioni sulla base dei partecipanti alle primarie di domenica scorsa restano sconsolanti. In troppo pochi sono andati ai gazebo perché Renzi possa sperare, sulla base dei precedenti, anche di replicare gli 8 milioni e mezzo di voti abbondanti del Bersani del 2013.

SONO CALCOLI fatti a freddo, quando non si conosce neanche la legge elettorale con la quale voteremo la prossima volta, legge che ovviamente avrà un peso nell’orientare le scelte degli elettori. Ma volendo ci si può anche divertire a fare una previsione della percentuale che potrebbe spettare al Pd alle prossime elezioni, se davvero dovesse raccogliere non più di 7 milioni di voti. Per farlo, però, c’è bisogno di fare un’altra previsione, sul numero di voti validi.

Basandoci anche in questo caso sui precedenti, si può immaginare che se la disaffezione degli elettori crescerà seguendo la linea di tendenza evidenziata dal 2006 al 2008 e poi al 2013, alle prossime elezioni i voti validi dovrebbero attestarsi attorno ai 31milioni.

Il Pd, allora, potrebbe arrivare al 22-23 per cento, non molto di più. Vale a dire, percentualmente, più in basso del Pd di Bersani (che raggiunse il 25,5% da solo e il 29,5% in coalizione). E, soprattutto, lontanissimo dal premio di maggioranza, ovunque collocato.