Intrappolato da se stesso, ergastolano delle proprie prigioni, ostaggio di una nomenklatura sconfitta ma decisa a non farsi da parte. Ridotto a una variabile dipendente delle larghe intese. Ieri il Pd, riunito nell’assemblea nazionale, non riesce a decidere nulla e rimette in forse persino la data delle primarie. Offrendo al paese – e regalando agli avversari, pardon alleati di governo – l’ennesimo spettacolo del proprio disfacimento, con l’inedita tecnica dell’autosabotaggio. I franchi tiratori dem, ora lo si vede, sono ben più di 101.

«Non si gestisce così neanche una bocciofila», sbotta Ermete Realacci, «il Pd non merita questo gruppo dirigente», esplode Gianni Pittella. «Distrastro», «vietnam», «vergogna», le parole che rimbalzano fra i capannelli all’uscita dell’Auditorium di via della Conciliazione di Roma. L’assemblea del Pd si conclude nel caos: nulla di fatto. Un’anziana delegata si avvicina in lacrime al bersaniano Nico Stumpo: «Ciao, qui a me non mi ci vedete più».

Finisce dunque nella fossa dei sospetti reciproci, delle accuse incrociate e delle frecce avvelenate – in due parole: a rotoli – la giornata in cui il Pd doveva varare l’inizio del congresso e la ripartenza dopo mesi di scontri per bande. Alla fine della baraonda, dal palco Guglielmo Epifani, il reggente che non regge, certifica il fallimento, ammette: «È subentrato un problema, la commissione ritira la proposta che aveva avanzato». Resta fissata, spiega, la data dell’8 dicembre per le primarie.

Ma in pochi si fidano. Il «problema subentrato» è più grande di quello che appare: non c’è il numero legale dei presenti necessario ad approvare le modifiche dello statuto, quelle su cui a notte fonda la commissione dei saggi ha raggiunto un gracile accordo. Contro la modifica del fatidico art.3, quello dell’automatismo fra segretario e candidato premier, si erano espressi solo la bindiana Miotto e il veltroniano Morassut. Ma, all’apparenza, su tutto il resto del pacchetto c’è una maggioranza bulgara: le aree di Bersani-Epifani, di Letta, di Cuperlo-D’Alema, di Renzi, di Franceschini, di Fioroni ci stanno.

Ma l’apparenza inganna: la mancanza del numero legale, c’è chi ci giura, non è casuale. L’ha voluta, dice Matteo Orfini, «chi da mesi vuole mantenere lo statuto così com’è per ritardare il più possibile il congresso. Diciamo la verità: per impedirlo». Nel mirino l’ex segretario: vorrebbe rallentare, ma il termine giusto è «sventare», la vittoria annunciata del sindaco di Firenze. E il presidente del consiglio, che all’assemblea non c’è: avrebbe timore dell’equazione Renzi-segretario uguale crisi-di-governo. Fatto sta che salta tutto: «C’è del metodo in questa follia», twitta Debora Serracchiani. Interpreta il sospetto di molti: «questo fallimento è scientemente ricercato», dice il segretario della giovanile Fausto Raciti. È «indecente e funzionale a chi vuole mantenere il partito così com’è, e cioè solo un sostegno al governo», chiosa Orfini. Così va in scena lo sconfortante spettacolo di un Pd intrappolato da se stesso.
In mattinata Roberto Gualtieri, ’saggio’ incaricato della commissione, illustra l’accordo raggiunto. Subito dal palco il veltroniano Enrico Morando minaccia ricorsi: cancellare l’art.3 non si può fare in un’assemblea senza numero legale. Poi interviene Rosy Bindi: «Voterò contro la modifica dell’art. 3».

È l’avvisaglia del deragliamento. Ma la vicepresidente dell’assemblea, Marina Sereni, manda avanti gli interventi fino alla sfilata dei candidati. È l’unica parentesi bella della giornata. Gianni Cuperlo parla dei poveri, «tanti da far paura», chiede che il Pd cerchi «un’alternativa radicale» per far uscire dalla crisi «un paese migliore». Per questo «serve un partito», dice, non un uomo solo: «Da solo neanche il migliore di noi ce la fa». È interrotto da 13 applausi, quello finale non finisce mai.

Per Matteo Renzi è il primo intervento nell’assemblea del suo partito, dov’è solo invitato. Disegna il suo Pd di «giovani sindaci e amministratori» che rivoluziona «la sua comunicazione», che «abbatte i suoi tabù» e cioè assume la meritocrazia e la riforma della giustizia civile come suoi cavalli di battaglia. Appoggio totale a Letta, dice, ma alla frase dopo gli sgancia l’ennesima bordata: «Basta nascondersi, oggi in politica non c’è nessuno che dice ’la colpa è mia’», ce l’ha con il premier che sostiene che i conti non tornano «per colpa della instabilità». Porta a casa dieci applausi freddini – l’assemblea è stata eletta ai tempi di Bersani, non sta dalla sua. Scende dal palco e abbraccia Cuperlo. Civati si schiera apertamente contro il governo. Poi l’appassionato europeista Pittella. Sarebbe forse un bel congresso, se si facesse.

Si passa ai voti. Passa il documento delle raccomandazioni. Renzi se ne va. I bindiani chiedono il voto dell’accordo per parti separate. Si alzano poche deleghe, 76. Ma l’operazione viene sospesa e tutto si incaglia. Intorno a Epifani c’è un capannello: se non passa, gli spiegano, verrà chiesta la verifica del numero dei votanti. Fin qui sono 472, siamo ai limiti di quelli che servono per modificare lo statuto. Il bersaniano Zoggia, l’uomo delle missioni impossibili, chiede mezz’ora per riconvocare la commissione. In platea renziani e giovani turchi si incontrano. «Pacco, doppio pacco e contropaccotto», attacca Raciti. «Se questo è il clima, pigliamoci il pacchetto così com’è: vogliono far saltare il congresso», consiglia Orfini.

Dopo un’ora e un quarto la commissione certifica il fallimento. Si avvera la minaccia dei bersaniani: se salta l’accordo, si va al congresso con il vecchio statuto, il timing lento e il vecchio tesseramento (gestito dal vecchio gruppo dirigente e contestato dal palco da Pittella).

I renziani cantano vittoria: il leader resta candidato premier. Ma non sarebbe la prima volta che si fanno mettere nel sacco dagli sherpa del Nazareno. Avvisa ancora Orfini: «Ora ci spiegheranno che con il vecchio statuto non ci sono più i tempi per i congressi locali, tutto slitta al 2014». Paolo Gentiloni fiuta la trappola: «C’erano i tempi per fare le primarie il 24 novembre, tanto più ci sono per l’8 dicembre». Il veltroniano Ceccanti illustra un timing serrato. Il renziano Guerini avverte: «La data dell’8 è immodificabile». Il bersaniano Fassina replica a brutto muso: «I renziani la smettano di parlare del Pd in terza persona: sono responsabili più degli altri del risultato di oggi».

Ma un bersaniano doc è scettico: «8 dicembre? Bisognerebbe zippare il tempo». I bersaniani accusano Bindi e veltroniani di aver fatto saltare il banco. «Non ci provino», sibila deputata cattolica, «non usino la mia leale battaglia come scusa per ritardare il congresso, facciano subito i congressi locali, e in streaming». Beppe Fioroni alza gli occhi al cielo: «Altro che primarie dell’Immacolata, serve il miracolo dell’Immacolata per riuscire a farle». Bersani mastica il sigaro, sereno: «Le primarie l’8? Tutto si può fare, se lavoriamo pure di notte… Discuteremo in direzione». Alla direzione del 27 settembre si discuterà di regolamento del congresso. Con il rischio che sia, invece, un regolamento di conti.