Nell’introduzione svolta ad un bel seminario del giugno del 2011 all’università La Sapienza di Roma, il costituzionalista Fulco Lanchester definì la Par condicio «uno splendido brocardo per dire qualcosa che l’ideologia liberaldemocratica ha teorizzato alle sue origini, ovvero la necessità che vi sia nell’ambito delle competizioni elettorali e referendarie una eguaglianza tendenziale delle opportunità tra i concorrenti nell’orientamento dei cittadini aventi diritto al voto» e aggiungeva che «l’atto di votazione non può essere ristretto al mero momento costitutivo dell’espressione del voto, ma trova una fase fondamentale nella preparazione dello stesso…».

Insomma, si tratta di uno strumento difensivo, indispensabile per garantire una base di partenza almeno formalmente uguale tra i soggetti in campo. A maggior ragione in Italia, dove i conflitti di interesse a go go e l’assenza di una dignitosa normativa antitrust hanno fatto della televisione una zona franca. Senza Dio e senza Legge. Fu la ragione del varo delle legge n.28 del febbraio 2000. Una dozzina di articoli assai agevoli, terribilmente complicati dal latinorum di diversi regolamenti applicativi.

Tuttavia, è evidente che ogni ipotesi di definizione normativa riguarda spazi e quantità delle presenze politiche, mentre non ha senso evocare valutazioni qualitative o la selezione degli argomenti da trattare.

E chi mai potrebbe esercitare tale potere? E’ utile ribadire simili concetti, perché periodicamente, sulla base di una polemica o di un contenzioso di occasione, si evocano revisioni della legge o si promettono approcci nuovi, nuovissimi. Se esistono, battano un colpo.

Comunque, è paradossale che proprio il Partito democratico apra un battage sui «talk show», perché Ballarò avrebbe ecceduto nelle interviste a 5 Stelle. O persino sul presunto vantaggio mediatico della Cgil. Tra l’altro, il direttore di Rai Tre Andrea Vianello, ascoltato ieri dalla commissione parlamentare di vigilanza, ha chiarito che è meglio parlare di «talk» (lasciando perdere lo show), strumento utile per approfondire i temi della politica.

Guai a confondere la necessità di ripensare un modello soffocato dai richiami all’audience – eccitando gli “spiriti animali” del pubblico – con la velleitaria richiesta di abolirli. O si pensa davvero di poter ripristinare le Tribune politiche della prima repubblica, illustrate opportunamente in una mostra che proprio oggi si inaugura alla Camera dei deputati?

Ovviamente, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dovrebbe intervenire sulle plateali diseguaglianze, che emergono proprio dalle tabelle pubblicate sul sito dell’Agcom, riferite – le ultime – a un agosto caldo. Il Pd di Renzi tocca complessivamente quasi la metà del tempo, mentre gli altri – a cominciare da 5 Stelle, che alle elezioni politiche condivisero la prima posizione, e per proseguire nella classifica impari – devono accontentarsi di ciò che rimane.

Se mai, è da ripensare la metodologia del calcolo quantitativo, che somma i minuti a prescindere dalla fascia oraria e dall’emittente. Il Centro di ascolto radiotelevisivo del partito radicale, che speriamo possa riprendere quanto prima la sua preziosa attività, giustamente teneva conto dell’ascolto effettivo dei notiziari e dei programmi, in luogo di un meccanico conteggio delle parole. Il Tg1 delle otto di sera ha un ascolto non commensurabile, ad esempio, con quello di Sky o di Rainews. E vari format del day time fanno più politica dei tg.

Insomma, come si dice, si guardi il cielo e non il dito.