«Io sono uscito dall’aula, non ho votato la fiducia. Quando mi hanno candidato nel programma non c’era l’idea di dare ragione a Sacconi nella sua crociata contro l’art. 18. Ma Renzi ha vinto. La nostra battaglia per il momento si è conclusa con una sconfitta. Cercavo il modo migliore di dire al mio premier che di forzatura in forzatura si lasciano troppi cadaveri per terra». Di buon mattino ad Agorà (Raitre) il senatore dissidente Corradino Mineo è un fiume in piena. Parla dei cadaveri che lo scontro sul Jobs act lascia nel Pd. Parla di sé, politicamente parlando. In realtà anche Lucrezia Ricchiuti e Felice Casson mercoledì notte sono usciti dall’aula. Ma è contro di lui che si addensano i malumori nel Pd.

All’alba Matteo Renzi, entrando in segreteria, spende parole affettuose verso il dimissionario Walter Tocci (che però ha disciplinatamente votato sì): «È una persona che stimo molto, farò di tutto perché continui a fare il senatore». Ma poco dopo il suo vice Lorenzo Guerini, in genere uomo di diplomazia, è gelido verso i tre dissidenti: «Sono fuori dal Pd? No, ma non partecipare a un voto di fiducia politicamente molto significativo mette in discussione i vincoli di relazione con la comunità politica di appartenenza».

Toccherà al gruppo del senato affrontare il dossier, la settimana prossima. Tanto più che cominciano ad arrivare le adesioni degli esponenti della sinistra al corteo della Cgil, quello del 25 ottobre contro il Jobs act. Per esempio quella di Stefano Fassina, che ieri ha organizzato alla camera la presentazione del libro Il capitale nel XXI secolo dell’economista francese Thomas Piketty, presente il gotha della sinistra compresa la ’vecchia guardia’, da D’Alema a Bersani e Camusso. Fassina avverte che «c’è una grandissima preoccupazione e sofferenza di una parte dei gruppi parlamentari, che rappresenta la preoccupazione di un pezzo molto significativo del nostro mondo». Ma meglio lasciare stare la disciplina, avverte: «Ricordo al vicesegretario Guerini che ad aprile 2013 lui e altri che ora danno lezioni sulla disciplina di partito votarono in modo diverso dall’indicazione della maggioranza sulla presidenza della repubblica». Scoperchiare vecchie pentole potrebbe non essere una buona idea per il Pd di Renzi.

Ma fra i renziani c’è chi invoca il pugno duro. Come Roberto Giachetti: «Si è messa a rischio la tenuta del governo. Se non si prendesse atto, con una decisione formale, della fuoriuscita dal Pd di chi ha compiuto questa scelta il Pd diventerebbe un partito sciolto più che liquido». Ce l’ha con Mineo. Che replica: «Giachetti è un radicale, vedo che si è evoluto molto bene, gli faccio i miei complimenti». Controreplica di Giachetti: «Mineo, nominato capolista in Sicilia al Senato, non è un radicale ma un esponente della sinistra comunista. Vedo che nei decenni passati in Rai si è evoluto: dal centralismo democratico a non votare fiducia al proprio governo. Un po’ troppo. Questo individualismo anarchico è inaccettabile perfino per un radicale».