A partire dagli anni Venti del Novecento, la letteratura italiana diventa un laboratorio di esperienze creative, che provano a dare sostanza a quella categoria ampia a cui diamo il nome riassuntivo di modernità. Il bisogno di una rivoluzione attraversa l’opera di scrittori anche assai diversi, impegnati a raccontare un’idea mutata di realtà e analizzare i comportamenti di un soggetto ambiguo, estraneo ai protocolli, stilistici e concettuali, del naturalismo.

Quando Cesare Pavese, nato come Vittorini nel 1908, si pone domande sulla prassi e sull’essenza della letteratura, ha di fronte un panorama italiano insoddisfacente. Alle ideologie egemoni nell’Italia fascista, contrappone soluzioni alternative, che si incarnano nelle trame di sangue, di sesso e di furore della cultura inglese e americana: dalle peripezie di Moll Flanders alla provincia messa in scena da Sherwood Anderson fino allo scontro titanico tra bene e male drammatizzato da Moby Dick.

Un contenitore fluido
Per capire quali principi abbiano guidato le sue scelte non c’è maniera più efficace che attraversare la miniera costituita dalle pagine del Mestiere di vivere. A metà degli anni Trenta, nel confino a cui era stato condannato, Pavese avvia la scrittura di questo testo straordinario, che si estende, lungo il filo degli anni, dall’ottobre del 1935 alle soglie della morte, avvenuta nel 1950.

A che cosa allude il titolo tutt’altro che trasparente? Ivan Tassi, che, nel quadro della riedizione delle opere di Pavese diretta da Gabriele Pedullà, ha curato l’opera con scintillante intelligenza – Il mestiere di vivere, con Un viaggio felicissimo, Frammenti della mia vita trascorsa, Il taccuino segreto, appendice critica di Anna Carocci, Garzanti, pp. 992, € 16,00) ricorda le approssimazioni che, nelle lettere o all’interno della stessa opera, l’autore adotta prima della scelta finale: «”diarietto”, “giornale”, “zibaldone”». Sono le etichette utilizzate per nominare un contenitore fluido, in cui si mescolano appunti quotidiani, sfoghi personali, riflessioni metapoetiche e ragionamenti antropologici o filosofici.

Nella ricostruzione di un genere letterario così duttile, Tassi evoca le definizioni presenti in Stendhal e in Virginia Woolf, in Kafka e negli altri autori che si sono interrogati sulla sua natura. Riprende le tesi di Roland Barthes e di Philippe Lejeune o di Georges Gusdorf e, servendosi di un quadro teorico ben articolato, introduce il libro al lettore.

Inutile cercare una trama lineare nell’organizzazione dell’opera. Si possono certo indicare cesure cronologiche, mutamenti di prospettiva da un anno a un altro, che definiscono la gerarchia acquisita dai temi dentro lo scorrere della vita.

«Il contrasto, l’antinomia e l’ambivalenza risulteranno invece il motore e la cifra distintiva dell’autorappresentazione che Pavese ci offre di sé: la chiave d’accesso e la ‘legge’ – dirà il Mestiere nel 1943 – ‘di tutta la vita’».

Non si può fissare, nella successione delle pagine, la coerenza di un sistema che ignori rettifiche, aggiustamenti o perfino contraddizioni. Maurice Blanchot ha sostenuto che la scrittura frammentaria si nutre strutturalmente di opposizioni, di punti di vista contrari, che collidono senza reclamare alcuna sintesi.

Questa struttura irregolare, sottratta a qualunque ipoteca rassicurante, è il fondamento su cui poggia il lavoro di Pavese. Il 22 febbraio del 1940, a conferma di una direzione imprevedibile, consegnata unicamente al ritmo diseguale dei giorni e governata dal solo intento di mettersi alla prova, annota: «L’interesse di questo giornale sarebbe il ripullulare imprevisto di pensieri, di stati concettuali, che di per sé, meccanicamente, segna i grandi filoni della tua vita interna. Di volta in volta cerchi d’intendere che cosa pensi, e solo après coup vai a riscontrarne gli addentellati con giorni antichi».

Vergogna e solitudine
Attraverso la molteplicità delle pagine che ha davanti, il lettore ritrova la sceneggiatura di un rapporto continuo tra la vita e l’arte. Incontra ammissioni dolorose di fallimenti o scopre frammenti di un cuore messo a nudo, le cui ferite mostrano vergogna e solitudine. Contemporaneamente si imbatte in riflessioni illuminanti sulla letteratura e sulla poesia, che diventano paragrafi di un virtuale breviario di estetica. Nella cultura di Pavese risuonano le voci di autori indispensabili per dare forma alle moderne unità psicologiche. Le guide possono prendere il nome di Vico o di Proust e di Thomas Mann, ma anche di Freud e di Jung, di Dostoevskij o Nietzsche. Sono loro gli esploratori di un mondo incognito, che si muove sotto la ragione e ne intacca l’egemonia. Gli antichi miti ridiventano, grazie a loro, storie non cancellate, immagini di un universo arcaico, che sopravvive dentro la civiltà.

Il lettore trova nel Mestiere di vivere sostegni ripetuti al ruolo estetico e psicologico che questo mondo sotterraneo occupa nell’intera configurazione del Novecento. In un passo centrale del suo diario-zibaldone, tutta l’arte moderna, a partire da Leopardi per arrivare a Picasso e Joyce, è inscritta da Pavese sotto la categoria del selvaggio; come argomento, poi come forma o psicologia e come naturalità della vita: «Tutto ciò che ti ha colpito in modo creativo nelle letture, sapeva di questo (Nietzsche col suo Dioniso…)».

Rappresentare nelle opere i demoni che cozzano con la ragione e ne offuscano la luce è la via indispensabile perché gli uomini riconoscano il sottosuolo che è dentro di loro e imparino a convivere con le furie che ancora lo abitano. In fondo, i libri di Pavese non sono che variazioni continue intorno a questa contrapposizione.