La situazione dentro Forza Italia è davvero seria se meno di 24 ore dopo il giorno dell’ammutinamento il capo affida a una nota destinata ai parlamentari il paterno suo monito. «Ho invitato e invito – verga l’ex cavaliere – i nostri deputati e i nostri senatori a sostenere convintamente questo percorso». Segue spiegazione dell’accorato appello: «Per la prima volta (ma meglio tardi che mai) riscontriamo la volontà di altre forze politiche di concorrere davvero a quel percorso di riforme che abbiamo lungamente auspicato». Non che il socio del Nazareno dimentichi la marea di critiche mosse dai suoi alle riforme in questione. Ma «il cammino è lungo» e «avremo modo di migliorarle e di ampliarne, ove possibile, gli obiettivi».

Ma saranno davvero i ribelli del senato elettivo destinatari della missiva? Solo in parte. La clamorosa presa di posizione serve prima di tutto rassicurare Matteo Renzi. Lo aveva già fatto Denis Verdini, dopo il furibondo intervento all’assemblea dei gruppi parlamentari di giovedì. «Li facciamo sfogare, ma la linea non cambia», aveva assicurato all’amicone fiorentino al telefono. A Renzi non basta, soprattutto perché gli scossoni in casa azzurra si ripercuotono immediatamente negli altri gruppi. Ecco infatti Bersani che, dopo aver pigolato per tutti gli ultimi mesi, all’improvviso ruggisce e arriva ad affermare che se non cambia la legge elettorale sulle preferenze il Senato non elettivo non può andare. Ed ecco che persino nello scodinzolante Ncd il capo dei senatori Schifani attacca sull’Italicum che «così come è non può passare perché il premio di maggioranza rischia di essere bocciato come incostituzionale». Senza contare che anche da quelle parti di senatori ostili alla riforma di Silvio e Matteo ce n’è un congruo numero.

Urgeva una uscita allo scoperto del presidente, non solo una delle solite telefonate della coppia di fatto Renzi-Verdini. È arrivata. Ma stavolta c’è il rischio che non basti, che neppure la parola definitiva del capo valga a sedare la ribellione. Il perché è presto detto. Se da una parte è vero che Berlusconi difende interessi sodi, la stessa cosa deve dirsi a proposito delle sue truppe. Per lo spodestato di Arcore, la posta si incarna nelle postille inconfessate del patto, quelle che col Senato non c’azzeccano ma hanno a che vedere con roba più forte: il tetto pubblicitario Mediaset, e poi la riforma della Giustizia, le nomina al Csm e alla Consulta, tutte voci che in un modo o nell’altro rimandano agli eterni guai giudiziari dell’imputatissimo.

Per i parlamentari la posta è però altrettanto alta: è il posto, il seggio, la possibilità di restare in carica gli anni necessari per costruirsi un’alternativa soddisfacente.

Il punto dolente è che nella “norma transitoria”, quella per cui anche dopo la riforma del Senato e il varo della legge elettorale la legislatura resterebbe in vita fino a naturale compimento nel 2018, non ci crede nessuno. Nella tabella di marcia di Renzi il nuovo Senato dovrebbe essere approvato definitivamente entro la fine di gennaio. In quel mese anche l’Italicum, con tutte le modifiche del caso, sarà legge dello Stato. Le dimissioni del capo dello Stato a quel punto saranno più che mature. Cadranno da sole giù dall’albero del Colle, giusto in tempo per accorpare le elezioni politiche alle regionali di aprile.

C’è un solo modo per evitare un esito che in Parlamento viene ormai dato per quasi certo: ostacolare il percorso delle riforme in modo che il palleggio camera-senato arrivi oltre gennaio e comunque evitare che la riforma incassi i due terzi dei voti necessari per evitare il referendum. Col referendum, infatti, diventerebbe impossibile l’accorpamento politiche-regionali, e a quel punto si potrebbe almeno sperare di riaprire la partita delle elezioni anticipate. Per questo, per la prima volta, la decisione di Berlusconi potrebbe non essere legge per i suoi parlamentari.