Sono trascorsi più di venticinque anni, era il 1995, da quando il Torino Film Festival, che si chiamava ancora con il suo nome storico, Festival Internazionale Cinema Giovani, dedicò un omaggio (curato da Roberto Turigliatto) a Paulo Rocha. Fu l’occasione per tuffarsi, perdersi e ritrovarsi, nelle vertigini poetiche del cinema del regista portoghese, dal suo esordio splendidamente «nouvelle vague» di Os verdes anos (1963) alla coppia di documentari realizzati nel 1993 e 1995 per la serie tv Cinéma, de notre temps e dedicati a de Oliveira e Imamura, passando, tra gli altri, per Mudar de vida (1966), memore del «cinema nôvo», e il dittico portoghese-giapponese A ilha dos amores (1978-1982) e A ilha de Moraes (1984).
Dopo il 1995 Rocha, la cui filmografia è composta di un numero comunque ristretto di titoli, diresse ancora quattro lungometraggi, altri capolavori che andarono ad aggiungersi a quelli precedenti (si pensi anche solo a O Rio do Ouro, del 1998, vetta di tutta la sua opera).

L’ULTIMO, Se eu fosse ladrão… roubava (Se fossi un ladro… ruberei), risale al 2013. Rocha era scomparso il 29 dicembre 2012 a 77 anni. Film postumo, ma del tutto concluso dal suo autore (l’anno indicato sui titoli di coda è il 2011) che segnava il ritorno alla regia di Rocha dopo una lunga assenza (Vanitas è del 2004), venne presentato al festival di Locarno e poi «scomparve». A maggior ragione diventa imperdibile la sua prima visione proposta questa notte (dalle 1.10 su Rai Tre) da Fuori orario – che continua a recuperare opere rarissime (e sarebbe bello e utile «tornasse» ancora al cinema di Paulo Rocha, proprio a partire da Vanitas).
Fonte di Se eu fosse ladrão… roubava è un’idea originale del cineasta e sono, al tempo stesso, le memorie del padre che emigrò in Brasile agli inizi del Novecento. Si tratta di un primo livello narrativo al quale se ne accosta e sovrappone un secondo, popolato di altre memorie, questa volta riaffioranti dalle immagini dei film di Rocha. Storia familiare, personale, privata e lavorativa, e storia di un paese e della sua gente. Tanti strati che si (con)fondono fino a farsi inestricabili.
Rocha non ama i percorsi lineari e questo ultimo suo film ne è testimonianza preziosa e perfetta. Ancor prima di fare la conoscenza della famiglia di Vitalino (nella finzione, il padre del regista), ecco immagini pittoriche alle quali Rocha dà vita, esplorandole nei dettagli. Uomini seduti su dei gradini, donne affacciate alle finestre. «Miniature» di un contesto portoghese rurale, contadino, di pescatori nell’amata regione del Douro.

DAL BIANCONERO, il giovane Vitalino fa capolino poco dopo, entrando, sbirciando in campo. Pare guidarci a incontrare i suoi familiari: i genitori anziani (Isabel Ruth e Luis Miguel Cintra), le tre sorelle. Siamo nel 1917 e c’è la peste. E il desiderio per tante persone di partire per terre lontane.
All’interno di questo «quadro» Rocha – alternando bianconero e colore, scene girate per il film e brani da tante altre sue opere, ricostruzione storica e svelamento del set (in un paio di brevi inquadrature di segno godardiano che lo vedono al lavoro osservare su un monitor lo svolgersi di una scena o parlare di come realizzarne una) – divaga, apre finestre, esprime la sua concezione dello spazio e del tempo dentro di esso, fa dialogare la storia di famiglia con quella del suo cinema, dei suoi film ri-chiamati come in un raduno di fantasmi, dis-orientando, così che i corpi degli attori e delle attrici (Isabel Ruth si innalza su tutto e tutti) si moltiplicano nei loro personaggi interpretati nel corso degli anni, si rincorrono truffautianamente da un film all’altro. Il cinema della vertigine di Paulo Rocha si ri-presenta intatto. Vertigine anche sonora, nelle esplosioni musicali e canore, nelle frasi che si ripetono, come nel caso della canzone popolare ballata durante una festa e da un cui verso il film prende il titolo.
Si potrebbe, a una prima lettura, pensare a un film-testamento, invece Se eu fosse ladrão… roubava va interpretato come un possibile ri-inizio, una memoria multipla da proiettare verso il futuro (che non ci sarebbe stato per la scomparsa di Rocha), verso nuove sfide, verso, come scrive Turigliatto nelle note che accompagnano il passaggio televisivo, «una nuova metamorfosi cosmica della sua mitologia poetica». E in questo viaggio nel tempo e nelle immagini, e nello spazio-tempo delle immagini, nelle parole, nei corpi, nei simboli del suo cinema, è commovente ri-trovare Rocha nei suoi «vagabondaggi» giapponesi, a spasso in un cimitero o chiacchierando con una donna. Sempre, come la gente della valle del Douro qui nuovamente narrata, in cerca di altri posti. Proprio come il padre morente che dice a Vitalino dell’esistenza di altre terre oltre questa, di altri mondi da incontrare.