Suggerisce un mestiere, il titolo di quest’ultimo romanzo della francese Pauline Klein, il cui ruolo sulla scena è di rilievo modesto. Non le si chiede che di essere presente. Ed è proprio in ordine a questa mancanza di voce gridata e di mordente esibito che La Figurante (Carbonio, pp. 145, euro 14) si affaccia nel racconto della storia della sua giovane vita.
Fin dalle prime frasi del romanzo, nell’ottima traduzione di Lisa Ginzburg, la narrazione indugia con franchezza severa sullo scialbore della protagonista, che sembra aver perso i suoi colori appena uscita dalla fase della bellezza sgargiante dei bambini. La prima persona delle frasi di presentazione rivela i tratti di Camille Tazieff, seguendo l’onda discreta di questa trasparenza – che la ragazza coltiva scegliendo di ritagliarsi uno spazio distante dal contesto dei suoi coetanei, ma anche dal milieu borghese parigino.
Camille si ripiega in se stessa aiutata da quegli strumenti che solo l’angoscia nei confronti del mondo esteriore sa forgiare così bene; ed è proprio negli anfratti di questo ripiegamento continuato che è costretta a inventarsi un personaggio.
Pauline Klein si destreggia in questo altalenare pirandelliano che prende in conto il desiderio di riconoscersi nei multipli luoghi dell’identità, che ci appartengono in quanto esseri umani: secondo cui per sopravvivere in un universo che non ci appartiene ci si risolve a infilarsi in un ruolo come se fosse un costume; secondo cui la sessualità vissuta può rispondere anche al solo carattere performativo dell’atto in sé; secondo cui è bene prendere coscienza della propria frustrazione, anziché fingerla; secondo cui si può sabotare silenziosamente un incarico lavorativo che si detesta per essere fedeli alla luccicanza dell’infanzia.

Lei descrive la vita di Camille Tazieff come una mascherata che comincia con le menzogne della madre sul luogo dove vive con la figlia, sul tenore di vita che entrambe conducono fino ai dettagli dell’abbigliamento scelto – in quanto esibizione del «proprio valore». Qual è l’universo sociale da cui ha preso spunto per tratteggiare questa trama di apparenze?
Il mio. Da un ambiente che ha ereditato i codici della borghesia ma li ha persi per strada. Mi interessava il divario che può verificarsi tra ciò che mostriamo sfoggiando segni esteriori di ricchezza, ad esempio, e ciò che accade realmente nelle nostre intimità. È molto facile oggi – lo dico perché ho anche collaborato con il mondo della moda e la sua fabbrica di apparenze – sfumare i confini tra chi siamo e ciò che mostriamo. Ai travestimenti si accompagna l’acquisizione di un linguaggio, di accesso a luoghi un tempo riservati a una cosiddetta élite: insomma, i diagrammi di Bourdieu che fanno corrispondere i livelli socio-culturali a sintomi tangibili di questi livelli non sono più del tutto validi. Questo è ciò che ho voluto evocare parlando di questa madre e sua figlia, che, secondo loro, non hanno il livello sociale a cui aspirano, ma hanno integrato in modo molto intelligente, in modo quasi perverso, i codici e i segni esterni che consentono di «innalzare» il loro grado di appartenenza sociale. Ha l’effetto di drammatizzare la vita come fanno i social, spezzando il ritmo interno della nostra umanità. Anche io, pur cercando di resistere a questa corsa, sono spesso sopraffatta dalla consapevolezza che un fiore o un piatto di frutta potrebbero essere una buona pubblicazione. Una visione del mondo in scatole strette e restrittive è stato uno dei punti di partenza del romanzo.

La storia è ambientata negli anni 2000, e nel libro la voce narrante parla della democratizzazione delle chat e dei siti di incontri come di qualcosa che ha procurato alla protagonista «un immediato senso di rigenerazione tra le pareti del mio piccolo ufficio». Nel libro parla a più riprese dell’associazione tra l’idea del dovere lavorativo e una certa forma di sessualità.
Da bambina il mio corpo è stato associato in modo del tutto inconscio o involontario al mondo del lavoro. In una scena del libro, due bambine riproducono una serie di immagini da una rivista erotica in cui una segretaria sexy e il suo capo finiscono nudi sulla scrivania. Mi sembra che la nostra generazione abbia integrato, fin dalla più giovane età, che per una donna lavorare bene poteva voler dire cercare questa ricompensa.
Trovare qualche forma di divertimento nella noia di ciò che, ad esempio, un lavoro amministrativo in un’azienda comporta, consiste nel fare la dipendente modello, inarcarsi nel rimettere in ordine il proprio mucchio di fogli, stare in piedi dritte. C’è in tutti questi automatismi corporei, una forma di gioco di ruolo che si riferisce alla sessualità. Si tratta di immagini incorporate che riappaiono nell’inconscio collettivo. Facciamo quello che serve per mimetizzarle – ed è forse anche per questo che sostituiamo le nostre scarpe da ginnastica con i tacchi quando arriviamo in ufficio e ci travestiamo – ma le immagini sono più forti di noi.

L’esistenza di Camille è tempestata da una serie di ingiunzioni sociali che la giovane donna assorbe con una passività solo apparentemente arrendevole. In realtà, pur non entrando in lotta aperta, trova i modi di per una opposizione silenziosa.
Credo che non sia sempre necessario postulare. Per rendere pubblici i propri pensieri, le convinzioni, le opinioni. Innanzitutto perché siamo una somma di contraddizioni e quel pensiero impiega un certo tempo per potersi articolare se vuole essere portatore di sfumature e quindi di significato, ma anche perché credo che questo stesso pensiero sarà sempre più ricco, se elaborato «di lato», in una forma di silenzio. Capisco l’impulso a voler essere ricompensati immediatamente reclamando, parlando più forte, alzando la voce. Ma le gratificazioni sono soddisfacenti quando si stabiliscono nell’intimità, in un dialogo privato, non filmato, non esposto.
Ci sono dei margini, nell’elaborazione del pensiero e del punto di vista, e Camille vive entro questi margini: cerca di resistere a ciò che è richiesto e mai messo in discussione. Viviamo in un’epoca in cui la parola viene immediatamente venerata o contraddetta. È meglio correre il rischio di resistere a questo circo di opinioni. Si tratta in effetti di un’opposizione silenziosa, che forse inventa altri legami con noi stessi e un altro modo rispetto a questo desiderio frenetico di voler apparire per appartenere. Questa ingiunzione a essere se stessi risulta surreale, quando ci si chiede da dove proviene veramente.

Il mondo esteriore terrorizza la protagonista – che rifiuta di amalgamarsi a «La grande festa là fuori» ritagliandosi uno spazio di solitudine protettiva. Si tratta dell’incapacità frustrata di fare parte di quel milieu o di un rifiuto scelto e assunto?
Probabilmente un po’ entrambe le cose. Viviamo in un mondo in cui siamo quasi sistematicamente costretti a esprimere il nostro punto di vista, in contesti sociali e politici la cui comprensione è sempre più difficile da cogliere. È molto difficile oggi convincere la gente ad accettare la non decisione, il dubbio. Non voglio e spero che questo non mi renda un essere denudato d’idee. Trovo che l’accesso alla libertà interna si trovi nell’accettazione dei paradossi e che questa libertà ci permetta di andare ben oltre lo scrivere sui muri che siamo liberi. Bisogna talvolta avere il coraggio del silenzio e dell’invisibile. Cerchiamo di personificarci articolando opinioni schiette e imponenti, colorate e funzionali. È vero che il dubbio non vende molto. Ma dovremmo essere in grado di venire a patti con il fatto che siamo persi e che non lo sappiamo.

Quando la voce narrante allude al dispositivo che Camille attua per venire a patti con il mondo, ci dice che lo fa tramite l’invenzione di un personaggio con cui prova a collimare. Il controcanto di questa costruzione risponde però a tutt’altro desiderio: «Qualcosa che mi permettesse di battermi per far sopravvivere l’incoscienza, ecco cosa avrei voluto». Quali sono i margini che definiscono questa incoscienza?
Recentemente mi sono pentita di quel termine. Penso sia una parola molto bella, ma potrebbe non essere proprio quello che intendevo. Credo che la sopravvivenza dell’incoscienza, che è l’espressione che ho usato in francese nel libro, significasse nel momento in cui scrivevo, l’accesso a questo stato che ci permette di avvicinarci al mondo in un modo nuovo. La possibilità di accesso a tutto tondo. Un processo, un tentativo di farsi da parte, più che un vero stato di candore o di ingenuità.
Si tratta della possibilità di restare aperti e porosi rispetto a quello che abbiamo costruito per essere ciò che siamo, lo scarto nei confronti di questa costruzione, per non passare la vita a «coincidere» a ciò che siamo. Questo è ciò che rende emozionante il viaggio attraverso l’esistenza, la reinvenzione di un’incoscienza che ci dà accesso a quei margini dove il tempo è di nuovo possibile. Per me questi margini sono una questione di sopravvivenza, permettono la scrittura, e la scrittura ci permette di preoccuparci dell’incoscienza, cioè di elaborare la leggerezza che perdiamo credendo di diventare noi stessi.