Rispetto ai film di Bresson e Visconti tratti dallo stesso romanzo il suo protagonista non aspira a liberarsi dalla propria condizione di solitudine attraverso l’amore, in realtà sembra che ricerchi masochisticamente questa solitudine…
Ho cercato di restituire l’anelito masochista di Fëdor che gli altri film avevano tralasciato, anche se non è la sola lettura possibile del film, la prospettiva di Visconti e Bresson, cioè quella di un nottambulo che incontra una donna solitaria e triste, nell’attesa infinita dell’amore della sua vita, resta valida. La mia idea è nettamente diversa, ma non si contrappone a questa, al più ci convive. Ci tengo anche a dire che la mia non è in alcun modo una sfida a Visconti o Bresson, per i quali ho grande rispetto, e di cui amo questi due film in particolare. Non sono in concorrenza con loro, semplicemente ho avuto un’idea che non era nei loro film.

Un film tratto da un romanzo… qual è, secondo lei, il rapporto tra un’opera letteraria e il testo filmico che la mette in scena? traduzione letterale o interpretazione?

Entrambe. Ho cercato la massima prossimità al testo originale, dopodiché ho giocato con elementi appartenenti al contesto contemporaneo, come il cellulare che fa da elemento di mediazione in alcuni snodi narrativi, o quella coreografia moderna della protagonista, che non è certo presente nel testo di Dostoevskij. La traduzione, poi, non è mai perfetta perché l’immagine dice sempre qualcosa in più rispetto al testo, trascende la parola, anche se non deve essere mai in contraddizione con essa.

Sulla recitazione lavora in senso sottrattivo, evita i picchi espressivi ed emotivi troppo accentuati…

Più emotiva è la parte della ragazza, che in alcune occasioni piange per il suo amore infelice. Ho detto a Pascal Cervo, l’attore che interpreta Fëdor, di essere «presente e contemporaneamente assente» e di prendere come modello Daniel Hourot in Madame De… di Max Ophüls. È per questo che spesso guarda altrove anche quando è presente nell’inquadratura con la ragazza, è assente con lo sguardo. E di questa assenza, come fossi Le Petit Poucet, Pollicino, ho seminato le briciole lungo il percorso del film, piccole ma sintomatiche discontinuità della presenza. Durante la prima notte ho fatto volontariamente un falso raccordo con lui che entra dalla parte sbagliata dell’inquadratura, come se arrivasse da un «altrove», oppure mentre lei gli sta parlando lui «perde il contatto audio» e non ne sente più la voce, come metafora acustica della perdita in assoluto. Quando lei si allontana dopo aver scritto la lettera c’è una luce irreale e abbacinante, che poi illumina il volto di lui e qui si spegne, ne dissolve la presenza. E ancora quando i due protagonisti sono sul molo in alto, c’è una inquadratura in cui lui è in luce e sulla destra ci sono le mani della ragazza, allora lui le afferra tira la figura di lei dentro l’inquadratura, dall’assenza alla presenza.

La delicata tessitura emozionale invece, più che sulla recitazione, sembra ricadere su componenti di immagine, come il gioco delle luci o i cromatismi… la scena del tramonto, ad esempio, ha una qualità di rosso incredibilmente poetico…

Pensa che è girata con l’IPhone e senza alcun intervento di post produzione, come tutte le scene diurne, mentre per la notte abbiamo usato una 5-D (intende la Fotocamera digitale Cannon EOS 5-D, ndr). Le luci variopinte e sfocate che creano la scenografia luminosa nelle notturne sono la trasposizione visuale della minaccia implicita nella notte, luci sconosciute come i pericoli della vita notturna. Sono come elfi, spiriti della notte, che non uso solo per denunciare questi pericoli, ma come monito per il protagonista, a cui dovrebbero segnalare il pericolo che corre, un pericolo che lui però ricerca. Perché di quella notte è figlio, una sua creatura.

Questa scelta di utilizzare l’IPhone ha suscitato molto clamore. È uno strumento che in qualche modo limita le possibilità espressive del regista perché ha uno zoom di pessima qualità e non permette di giocare con l’otturatore, con la messa a fuoco o con le variazioni di focale…

Non ho mai usato questo tipo di sintagmi neanche quando facevo film in 35 mm. Non uso mai lo zoom perché mi sembra artificioso, se in una inquadratura voglio andare da un punto un altro perché non fare un raccordo? Purtroppo nel cinema italiano c’è stata un’epoca in cui lo zoom era sopravvalutato, Rossellini, ma anche Visconti, ma non mi piaceva tanto. L’IPhone permette un accesso «democratico» agli strumenti di produzione delle immagini e richiede montaggio digitale e post-produzione, credo che sia questo il futuro del cinema. È stato il mio tecnico a dirmi «Ti prego prova l’IPhone e la 5-D, sono fatti per te, per il tuo tipo di cinema». Io, all’inizio, restavo attaccato alla mia vecchia Panasonic. Ho accettato di lavorare con il virtuale, ormai già da dieci anni, ma per quanto riguardava la fotografia ero piuttosto titubante. Poi mi è capitato di dover girare Faux Accord (Falsi Accordi) in due giorni e a quel punto mi è parso che avrei potuto provare, così ho girato con la 5-D e ho trovato l’immagine incredibile…la mia conversione è stata definitiva. La scena del tramonto in questo film, con quella stupenda qualità di rosso, per dire, è fatta semplicemente con l’IPhone, senza filtri, né interventi ulteriori. Non provo nessuna nostalgia per una qualche presunta «età d’oro» del cinema, quella del 35mm che tanti giovani rimpiangono e mitizzano, è qualcosa di prezioso, ma oramai definitivamente passata.

C’è molto lavoro sulle luci.

È un risultato sorprendente che ho ottenuto grazie alla mia geniale équipe tecnica, così come straordinari sono stati i risultati sul suono. Durante la prima notte c’è il rumore della risacca del mare e i due protagonisti usano questo elemento sonoro per giocare, perché ha un andamento quasi musicale, lo usano come una musica. In molti mi hanno fatto i complimenti per quella parte del montaggio sonoro…ma lì non c’è alcun montaggio, è solo la bravura della mia squadra. Ho da sempre un’attenzione particolare per il suono e una predilezione quasi totalizzante per quello di presa diretta, sul quale intervengo, ma solo a volte, in post-produzione. Più che altro mi capita con le parole, le manipolo con Pro Tools, per far emergere «la verità» della parola, la sua verità fonetica e tonale al di là di quella semantica. Non per renderla «migliore», più bella dal punto di vista sonoro, ma per renderla più «giusta», adeguata al significato.

Lei in questo film recita nel prologo…

A proposito del prologo volevo dire che non è tratto dalle Notti Bianche ma da Memorie Dal Sottosuolo e spesso è stato frainteso, addirittura definito «indigesto». A me è servito innanzitutto per operare una sorta di passaggio di consegne simbolico, un rito in cui cedo il mio film nelle mani dell’attore protagonista, cioè degli attori, che diventano come prosecuzioni, alter-ego moltiplicati, del regista. A livello narrativo, invece, qui introduco il tema del masochismo, del sacrificio, che poi ritorna un po’ ovunque nel film, perfino nella scelta dei movimenti di macchina, di solito così frequenti e vari nel mio cinema di movimento, e che qui ho limitato a spostamenti lineari in avanti o indietro e ai due lati, in modo da definire sempre una Croce, un riferimento simbolico non tanto al Cristo, quanto all’idea di sacrificio. Tutto il personaggio maschile è improntato a quest’idea: la ragazza è una proiezione dei suoi desideri, una sua creatura mentale di cui ha la responsabilità, come ogni divinità creatrice ha nei confronti dei suoi creati, e dunque in nome della felicità di lei deve sacrificare la propria. E come ogni creatura può decidere di ribellarsi al suo creatore così la mia protagonista decide di rifiutarlo, di non essere più la sua creatura, come vedi nella parte in cui danza e lo spinge via facendolo cadere.

Danza che è totalmente improvvisata…i suoi attori erano molto liberi dunque…

In realtà ho preteso che imparassero tutto il copione perfettamente a memoria, tuttavia ho anche detto loro di interagire creativamente con qualsiasi accidente, un rumore imprevisto, un errore o qualsiasi altra casualità, che fosse occorsa durante la ripresa. È così che sono nate le battute in cui lei chiede a lui se l’aereo che sentiamo passare sia di sua proprietà o se non lo sia il battello che dapprima udiamo solamente e che dopo attraversa veramente l’inquadratura.

Dunque non pensa alla sceneggiatura come a una struttura rigida…

La considero, con un gioco di parole, un pre-testo, rispetto al film, che è il testo. La sceneggiatura è contemporaneamente nel pensiero e nello scritto, se cambia qui, cambia lì. Scrivo molto più di quello che poi posso girare, in questo momento ho una sessantina di sceneggiature non realizzate. Non c’è uno schema definito, a volte ho scritto un film quasi completo in poco più di tre giorni, mentre per la sceneggiatura di: En Haut De Marches (Oltre Le Scale) mi ci sono voluti più di due anni, perché ho voluto concepirla come un gigantesco foglio di missaggio tutto diviso in colonne per ciascuna voce del montaggio con riportati i timing precisi di ogni singolo effetto, movimento, parola, eccetera.