A più di novant’anni, Paul Vecchiali ha vissuto così tante vite che si potrebbe dire di lui quel che Michel Foucault scrisse di sé: «Non sono dove mi cercate, ma qui da dove vi guardo ridendo». Regista sì, ma anche scrittore, autore di un’enciclopedia sul cinema francese anni ’30, montatore, attore, docente e critico per un periodo ai «Cahiers». È lui che all’inizio degli anni ’60 dà a Jean Eustache la pellicola per i suoi primi esperimenti e gli produce Les mauvaises fréquentations e Le père Noël a les yeux bleus.
A fine anni ’70 avvia quell’esperienza seminale d’arte e amicizia che fu la casa di produzione Diagonale. La sua attuale società si chiama Dialectik, riferimento al metodo con cui concepisce le sue opere. «Indépendant c’est son drapeau, anarchiste sa morale» diceva di lui un personaggio di À vot’ bon coeur (2004), spassosa autofinzione sulla cronica mancanza di sostegni al cinema indipendente. Il suo percorso di autore non è riconducibile a qualche parola-chiave anche se in una filmografia di più di sessanta titoli tra cinema e tv ce n’è uno, Corpo a cuore (1979), che dice bene di un’arte dei personaggi e degli affetti. Sin dai primi film con un Michel Piccoli non ancora divo godardiano, Vecchiali ha avuto fiuto per gli interpreti. Il suo ultimo Un soupçon d’amour, uscito a settembre nelle sale francesi e passato allo scorso Torino Film Festival, in un focus dedicato al rapporto cinema/teatro, è un melodramma sul lutto in cui un’attrice, Geneviève Garland, si accorge di non riuscire a recitare l’Andromaca di Racine forse perché nell’angoscia del personaggio ritrova la propria. Suo figlio è malato e lei vorrebbe dedicarsi solo a lui così chiede a Isabelle, collega nonché amante del marito André, di subentrarle. Abbandonate le scene, la donna torna al villaggio d’origine e il suo è tanto un viaggio nel tempo quanto un tentativo di fuga dalla realtà. Raggiungiamo Vecchiali al telefono nel sud della Francia per discutere di un’opera che ha la leggerezza e la profondità delle sue migliori creazioni e che si spera di poter rivedere sul grande schermo.

Il titolo «Un Soupçon d’amour» contiene la parola soupçon: possiamo interpretarla come un invito a guardare il film formulando ipotesi sui misteri che conserva?
Soupçon significa due cose: «sospetto» e «un po’». Il titolo è quindi doppio: un sospetto d’amore e un po’ d’amore. Al cuore del film c’è un mistero che riguarda il figlio di André e Geneviève ma non si possono tirare conclusioni univoche. Anzi penso che, visto una prima volta, il film vada rivisto almeno una seconda perché il finale autorizza diverse ipotesi, una più semplice che riguarda l’assenza del padre e un’altra più struggente che riguarda l’amore di coppia. Tengo anche a dire che è un film spazio-temporale: non si sa mai in che momento si stia svolgendo una scena, se sia immaginaria, un flashback, o il presente. Solo le sequenze tra Fabienne Babe e Marianne Basler si svolgono al presente. Il resto è soggetto a ipotesi, a una dialettica. Quando André dice «stop» dopo la scena di danza tra Isabelle e Geneviève, non invoca solo la fine dello spettacolo ma anche della realtà.

Il film è dedicato a Douglas Sirk e a sua sorella Sonia Saviange, protagonista di «Femmes femmes» (1974), un film che le ha cambiato la vita.
Sì, quando ho finito di girare Femmes femmes mi sono detto: da questo film non uscirò mai. Laura Betti lo vide a Parigi e telefonò a Giacomo Gambetti perché m’invitasse alla Mostra di Venezia, cosa che lui fece chiedendomi di portare le altre pellicole realizzate fino ad allora. Il fatto che la Mostra mi dedicasse una retrospettiva parve assurdo a coloro che distrussero senza capire. Ma quando Pasolini vide Femmes femmes, lo accolse come un capolavoro e il dibattito durò fino al mattino. Insieme a lui strinsi amicizia con la critica Floriana Maudente che ci faceva da interprete. Surgère e Saviange recitarono in Salò riprendendo una scena del mio film. Volevamo realizzare un progetto con Pier Paolo ma non ce ne fu il tempo. Il rapporto tra Geneviève e Isabelle in Un Soupçon d’amour richiama quello tra Surgère e Saviange in Femmes Femmes: rivali a priori ma complici in realtà.

Le due rifuggono lo stereotipo stile «Eva contro Eva». Da dove nasce l’idea di rovesciare i rapporti fissati da un cinema che ama?
Apprezzo Mankiewicz come sceneggiatore ma come regista sì e no. Il Fantasma e la Signora Muir è un capolavoro assoluto e anche Operazione Cicero con Darrieux e Mason ma il resto mi pare debole. Il rapporto tra Isabelle e Geneviève è pieno di sfumature: c’è generosità e rispetto ma nel numero musicale sulla terrazza, quando Geneviève canta, Isabelle le lancia un’occhiataccia; alla fine del siparietto le dice «mi hai fatto un gran regalo» e l’altra risponde «di cosa o di chi parli?». È dura come replica.

Geneviève fa Garland di cognome: è un riferimento al «Mago di Oz», a un cinema sospeso tra realtà e immaginazione?
Non era premeditato. Volevo che il personaggio avesse le iniziali doppie come Danielle Darrieux o Michèle Morgan. Solo dopo mi sono reso conto di aver scelto il cognome di Judy, inconsciamente.

Allora le faccio una domanda psicoanalitica: in Geneviève il principio di piacere domina sul principio di realtà senza che il film la biasimi, perché?
Perché io non giudico mai i miei personaggi. Prendiamo André: forse è un tipo superficiale ma io lo rispetto perché lo comprendo. È innamorato pazzo della moglie, quindi non sopporta la sua assenza e la tradisce. Io amo tuti i miei personaggi e i miei attori.

Ha dichiarato che se Marianne Basler non avesse accettato lei non avrebbe fatto il film, perché?
Marianne ha iniziato con me recitando nel suo primo telefilm e nel suo primo lungo, Rosa la rose, fille publique (1986) che in italiano si chiama Una donna per tutti, titolo che adoro perché mi ricorda La donna di tutti di Ophuls. Ci capiamo al volo e lavoriamo bene.

Avete elaborato un metodo di lavoro?
Il metodo Vecchiali implica una lunga preparazione e anche stavolta abbiamo letto la sceneggiatura riscrivendo tutti insieme quel che non funzionava. Poi ne abbiamo ottimizzata la cadenza come fosse una composizione musicale. Il dop ha fotografato le scenografie con l’iphone e le ha sottoposte, insieme al mio découpage, agli elettricisti e al capo macchinista per mettere a punto le posizioni di luci e macchine. Abbiamo lavorato cinque mesi prima di arrivare sul set preparati e girare in nove giorni. Quando si ha una troupe ridotta si può fare. Ma solo girandolo ho scoperto il film, gli attori hanno lavorato benissimo e ci sono stati momenti di profonda emozione sul set. Per esempio, nella sequenza al cimitero, che è fondamentale, con i sottintesi tra Geneviève che dice di essere andata a visitare la tomba di famiglia e il prete, amico d’infanzia, che pur non contraddicendola porta nel suo sguardo un’altra verità.

Altra collaborazione immancabile è quella con Roland Vincent alla musica: come funziona?
Lavoriamo insieme da cinquant’anni. La musica è parte integrante di ogni mia opera. Prima di girare, parlo a Roland del film, lui mi propone dei temi, io gli do le durate degli interventi che desidero e associamo i temi alle sequenze lavorando anche sul rapporto testo-musica. È un vero lavoro d’équipe, osmotico.

Lei che ha saputo raccontare l’Aids, farebbe un film sul Covid?
È quello che sto facendo. Sarà un musical ambientato in un cabaret en travesti di Ramatouelle in cui le girls hanno maschere nere con un led all’interno. Anche gli spettatori sono mascherati e questo permette a insospettabili difensori della morale di frequentare il locale. Mentre il sindaco è favorevole al club perché ne trae profitto, il consiglio municipale lancia una crociata. A un certo punto viene organizzata una violenta repressione in maschera ma la gente pensa che sia uno spettacolo e applaude prima di accorgersi che non lo è, che ci sono delle vittime. Si chiamerà Pas de quartier che significa «andremo fino in fondo» ma anche «danza di quartiere», di nuovo un titolo dialettico. Ho finito la sceneggiatura e giriamo ad aprile, Covid permettendo.