Anni fa Sting, un inglese a New York, si sentiva un alieno camminando per le strade di un America così diversa per attitudine e accento, lunedì scorso invece, grazie al vecchio ragazzo del Queens Paul Simon, la maledizione si è spezzata davanti a circa 8.000 incantati spettatori. Milano infatti ha ospitato, nella certezza del tripudio, la tappa del Paul Simon & Sting On Stage Together («Non capisco perché non abbiamo fatto tutto il tour qui – ha scherzato Simon a inizio concerto – non potete immaginare quanto siamo felici di essere qui»). Ben 32 pezzi a comporre la scaletta, quasi tre ore di concerto, un palco senza orpelli per due artisti così diversi, ma radicati nella cultura musicale di tutti, che per incanto si fondono in un unico amplesso di musica.

C’è qualcosa di familiare e antico nel vedere Paul Simon accanto a un corpo asciutto e longilineo ma stavolta è quello di uno Sting straordinariamente identico, per possenza di voce e basso, agli esordi con i Police. L’urgenza del punk si affianca così all’autunnale introversione e, fin dai primi istanti, emerge la voglia di mescolare giochi, suoni, eredità musicali, di guardare al passato di entrambi con spirito fanciullesco e quasi dissacratorio (l’angelica preghiera gospel di Bridge Over Troubled Water senza Garfunkel suonerà quasi blasfema). Strumenti alla mano, si parte con Brand New Day, The Boy in the Bubble, Fields of Gold e Mother and Child Reunion, senza pause, band mescolate, fiati, chitarre e percussioni senza soluzione di continuità.

Lo spettro di Garfunkel aleggia e la sua mancanza, negli impasti vocali di Mrs. Robinson o America, intenerisce anche le platee un po’ ingessate che hanno magari assaggiato per la prima volta l’amore ascoltando quelle melodie appena sussurrate. Ma non c’è tempo per le malinconie perché è il turno di assaporare le singolarità di ciascuno ed è Sting il primo a incendiare gli animi quando le corde del suo basso evocano il punk-reggae di So Lonely, aiutato dalle straripanti braccia del batterista Vinnie Colaiuta che non fa rimpiangere il genio di Stewart Copeland, per poi incantare un po’ meno nei viaggi arabeggianti Desert Rose di qualche anno fa.

Il dolce culto della solitudine, che ha sempre accompagnato il canto limpido, quasi spirituale, di Paul Simon, rivive in brani come 50 Ways to Leave Your Lover e Still Crazy After All These Years mentre l’amore per i suoni dell’Africa e del Brasile e il folk di Woody Guthrie ritorna nelle gemme degli anni’80, Heart and Bones e Diamonds on the Soles of Her Shoes.
Lo splendido caos si arricchisce di duetti sussurrati come Fragile e Cecilia mentre l’estasi finale è compito di Every Breath You Take e Bridge Over Troubled Water, a suggellare una festa di sensi dove finalmente la religiosa compostezza del Mediolanum Forum lascia il posto a un’esplosione di passi di danza che sembravano perduti e ai canti estasiati delle giovani generazioni.