«I soldati americani che sono stati in Afghanistan negli ultimi dieci giorni avranno dei ricordi che porteranno con sé per lungo tempo». Con queste parole Paul Schrader conclude la conferenza stampa di presentazione de Il collezionista di carte alla Mostra del cinema di Venezia. Un film che indaga il tema della colpa e del trauma in relazione agli eventi realmente accaduti nella prigione irachena di Abu Ghraib, quando alcune foto diffuse nel 2004 mostrarono al mondo le terribili torture di cui alcuni soldati statunitensi si macchiarono tra quelle mura.

«Ho girato questo film per la mancanza di responsabilità che affligge la società contemporanea» ha dichiarato il regista, nella storia d’altronde risaltano le colpevolezze mai riconosciute dell’alta gerarchia militare, insieme ad una derisione del fanatismo nazionalista che non comprende quanto siano brutali i presupposti del dominio. Il film è da oggi nelle sale italiane e tra i produttori esecutivi figura Martin Scorsese, con cui Schrader ha lavorato da sceneggiatore in capitoli indimenticabili come Taxi driver e Toro scatenato.

Il personaggio principale è interpretato da Oscar Isaac; qui si cala nel ruolo dell’ex soldato semplice William Tell, da torturatore divenuto giocatore d’azzardo professionista. «È interessante che si parli di un trauma causato dalle proprie azioni, mentre normalmente il punto di vista è quello della vittima» ha dichiarato l’attore. «Il mio personaggio lo descriverei come una statua di marmo, c’è molta gravità in lui per un’eccessiva colpevolezza, credo comunque che non meriti espiazione».

A proposito poi della tecnica di scrittura di Schrader: «Paul ha costruito i dialoghi in modo che emergessero pensieri e ricordi inconsci, per questo la struttura spesso non è lineare. Mi ricorda Harold Pinter, con quelle lunghe pause e degli elementi quasi esoterici con i quali si entra in una forte risonanza emotiva per capire cos’è in gioco». Così Isaac in un incontro ristretto durante il quale abbiamo chiesto anche al regista di approfondire alcune questioni intorno al film dove la furia in immagine, tra la realtà e la fiction, si fa bruciante testimonianza di un’impossibile scappatoia, fortemente attuale in questi giorni in cui vediamo scorrere le conseguenze della violenza di venti anni fa.

Il protagonista afferma che le sue azioni violente, anche se non giustificabili, lo relegano nella stessa trappola delle proprie vittime. È molto simile a quanto Primo Levi scrisse ne I sommersi e i salvati a proposito del rapporto tra aguzzini e prigionieri nei campi di sterminio. Come uscire da questo circolo? È possibile un’altra via oltre la vendetta?

Il perdono è l’unico modo per uscire dalla gabbia della colpa e del trauma. Nel film il personaggio del giovane sembra offrire un’occasione al protagonista di risolvere la situazione, riuscendo così a perdonare se stesso, ma poi non funziona e finisce per vendicarsi, facendo quindi ciò che ci si aspettava da lui. C’è una battuta nel film che ha a che vedere con la terapia e che recita così: «Il corpo ricorda». È ispirata ad un libro in cui mi sono imbattuto intitolato The body keeps the score di Bessel Van der Kolk. È perché il corpo ricorda che, a volte, l’ex soldato è spinto a fare scelte che sembrano distruttive. Un’altra battuta importante è quando il protagonista rievoca il suo superiore che gli diceva: «hai la stoffa» per fare il torturatore e lui dice a se stesso che era vero, che ce l’aveva dentro. Io credo che questo sia valido per tutti noi, senza eccezioni: possiamo essere tutti programmati per compiere azioni di questo genere.

William Tell è un personaggio ferito in un Paese ferito. Se il primo ricorda, il secondo non sembra ricordare.

Sì, anche se non si tratta solo degli Stati uniti ma di tutti i Pesi imperialisti che hanno fatto e che faranno la guerra. Gli americani non hanno capito la differenza tra conquistare e cambiare veramente la natura delle persone. Il sogno americano è una promessa che abbiamo raccontato a noi stessi: un tempo era più credibile, ma non abbiamo più quell’autorità morale che immaginavamo di avere. L’era del nostro predominio è finita, ora bisogna vedere cosa lascerà dietro di sé.

La musica ha un ruolo importante, sia perché si parla esplicitamente delle sonorità assordanti ascoltate dai soldati mentre compiono le torture, sia perché la colonna sonora è molto incisiva. Come ha lavorato sul suono?

Trent’anni fa uscì il mio film Lo spacciatore la cui musica venne composta da Michael Been, avrei voluto lavorare di nuovo con lui ma è morto dieci anni fa. Suo figlio, Robert, ha un gruppo che mi piace molto, i Black Rebel Motorcycle Club, a cui ho chiesto di scrivere la colonna sonora de Il collezionista di carte. Volevamo creare la sensazione di qualcosa di bestiale che emerge e che diventa man mano più chiaro, melodico e organizzato, contemporaneamente alla coscienza degli eventi che si disvela nel film.