«È difficile essere uomini», ha scritto Paul Ricoeur. Intendeva alludere al fatto che la necessità di «comprendere in modo più ampio e articolato il carattere ineluttabilmente conflittuale delle situazioni umane» è uno tra gli aspetti più peculiari del modo in cui, con Freud, teoria e prassi psicoanalitiche hanno sconvolto l’immagine di noi stessi, come si è andata plasmando nel corso del pensiero occidentale.

La filosofia non si è sottratta agli effetti di questa riconsiderazione radicale della natura umana, capace di identificare nella spinta pulsionale ciò che sempre di nuovo entra in conflitto con l’universo culturale. Non c’è dubbio che il confronto, intenso e senza esclusione di colpi, tra psicoanalisi e filosofia abbia rappresentato e continui a rappresentare uno dei grandi assi dello sviluppo del pensiero contemporaneo, i cui esiti sono stati di enorme interesse, approdando a una decisiva messa alla prova reciproca.

Il rapporto con la filosofia
Per un verso la psicoanalisi ha sollecitato la filosofia a ridiscutere i suoi presupposti, affinché riconoscesse nell’universo psichico qualcosa di irriducibile alla sola coscienza e all’Io: anche l’inconscio pensa. E la filosofia, che per (auto)definizione non è mai «possesso» del sapere, ma sempre e solo tensione e movimento verso qualcosa che le sfugge, se non vuole tradire se stessa deve evitare di cedere a tentazioni enciclopediche, a posture sistematizzanti, a sprezzanti pretese egemoniche, e soprattutto deve non rinunciare a spingersi verso l’esteriorità non addomesticabile del reale e dell’esperienza, vero irraggiungibile «oggetto» con cui il filosofo è chiamato continuamente a restare in rapporto.

Per altro verso, è accaduto che la filosofia, facendo leva sulla sua storia secolare e sull’esperienza delle proprie impasse nel rapporto con l’imprendibile «cosa» a cui mira, abbia nutrito la psicoanalisi nel suo corpo a corpo teorico e clinico con la sofferenza – roccaforte inespugnabile della soggettività, se è vero che l’appartenenza del dolore a «qualcuno» è sempre irriducibile. Su questa via, i filosofi hanno invitato la psicoanalisi a restare radicalmente fedele alla sua originaria concezione di una ratio priva di ogni alibi metafisico e identitario e, al tempo stesso, a non attestarsi incondizionatamente sui suoi principi e sulle sue procedure, a evitare senz’altro di farsi visione del mondo o ontologia regionale, a guardarsi dallo spirito di ortodossia che rischia di fuorviarne le istituzioni, e, senza tradire i suoi presupposti, a aggiornarsi tuttavia in rapporto alle innovazioni tecniche e ambientali del nostro tempo. Non sono stati rari, poi, i filosofi che si sono ritrovati al fianco della psicoanalisi nella critica delle recenti configurazioni del campo psichiatrico-psicoterapico, oggi tanto incline a sottrarsi a qualsiasi teoria generale dell’attività psichica. E non pochi hanno messo in guardia da una insufficiente interrogazione della enigmaticità dei sintomi e dal ristagno in una descrittività sincronica, basata sulla considerazione del mero dato comportamentale, quando non sulla disastrosa valorizzazione – magari inesplicita – del puro e semplice adattamento agli imperativi sociali.

Raccogliendo perlopiù testi redatti da Ricoeur tra gli anni Settanta e Novanta, inediti in italiano oppure dimenticati e soprattutto pressoché irreperibili perché dispersi in varie pubblicazioni d’occasione, Attorno alla psicoanalisi (a cura di Francesco Barale, autore anche di un lungo saggio introduttivo, Jaca Book, 445 pp. € 28,00) offre un importante documento per la ricostruzione della storia dei rapporti tra filosofia e psicoanalisi, e consente di cogliere la progressione delle sfumature e dei mutamenti che il pensiero di Ricoeur ha compiuto nel tempo a confronto con i testi di Freud.

Deviando proficuamente dalla sua iniziale prospettiva, Ricoeur ha infatti elaborato una lettura sempre più appassionata e precisa della psicoanalisi, satura di osservazioni e declinazioni, a partire – per superarle – dalle celebri (e poi discusse) ricostruzioni degli anni Sessanta, che propose nei libri della cosiddetta «svolta ermeneutica», Dell’interpretazione (del 1965) e Il conflitto delle interpretazioni (del 1969), dove ancora limitava l’analisi ai concetti, alla teoria e alla riflessione generale sulla cultura rinvenibili nell’opera del fondatore della psicoanalisi.

Proprio gli scritti compresi in Attorno alla psicoanalisi consentono ora di avere sott’occhio quanto parziale fosse la pertinenza dei rimproveri così spesso rivolti a Ricoeur per aver tentato di catturare la psicoanalisi nella coscienza filosofica: non solo sforzandosi di subordinarla all’ermeneutica, e neutralizzandone la carica eversiva nei confronti della filosofia del soggetto e del cogito, ma anche mancando di recepire le equiparazioni dell’inconscio al linguaggio, ai suoi tratti transindividuali e pre-rappresentativi.

Dalla teoria alla tecnica
Gli scritti collazionati nella raccolta non solo testimoniano di un Ricoeur sempre più fortemente consapevole della irriducibilità del pensiero freudiano a qualsiasi filosofia dell’intersoggettività, teoria della coscienza, fenomenologia del senso e della motivazione. Illustrano anche la sua crescente inclinazione a deporre ogni tentazione sintetica e ogni espediente strategico, allo scopo di restituire la complessità estrema del lavoro che analista e analizzato svolgono nei processi di distorsione, deformazione, trasposizione con cui ogni uomo nasconde e al contempo esprime i propri desideri più arcaici e indistruttibili.

Lo spostamento più visibile nel pensiero di Ricoeur, rispetto ai suoi testi degli anni Sessanta, sta in effetti nella dislocazione dell’interesse dalla teoria alla tecnica psicoanalitica, o meglio in una decisa ricontestualizzazione, anche epistemologica, di nozioni e schemi freudiani nel campo complessivo della esperienza e della clinica.

Nella sua non sistematicità, questa prospettiva è feconda su più di un piano: in primo luogo, assegna una centralità assoluta, nel pensiero psicoanalitico, al carattere insieme costruttivo e distruttivo del «lavoro» psichico, per esempio nel sogno e nel lutto. Un lavoro che è ormai considerato inassimilabile alla interpretazione in quanto tale, alla decifrazione di significati nascosti già esistenti, alla comprensione intellettuale dei sintomi, e viene colto piuttosto come progressiva scoperta di ciò che non è interpretabile, né traducibile.

Una scoperta fruttuosa perché capace di produrre quello spostamento di investimenti e di affetti che si rende possibile nel riconoscere e poi rivivere ciò che mentre si manifesta come una enigma, al tempo stesso esibisce una opacità rinnovata e più vivibile, più profonda.

Inoltre, il rinnovarsi delle analisi di Ricoeur sonda con grande intensità teorica il ruolo dell’immagine, della figura nella prassi e nei metodi freudiani d’indagine. Quello della «raffigurabilità» (o meglio, della «presentabilità», come è forse più adeguato tradurre Darstellbarkeit) è per Ricoeur un campo a cui occorre riconoscere una sua specifica semanticità, solo in parte riconducibile a quella linguistica. Campo fondamentale, perché caratterizzato da uno strutturale elemento dinamico e processuale che, articolandosi su diversi livelli, dal sogno all’arte, fornisce un supporto espressivo insostituibile all’eccesso pulsionale, nel suo conflitto con l’universo culturale.

Sono aspetti che oltre a contribuire all’approfondimento di quanto, con termine assai controverso, rinvia alla «narratività» del processo psicoanalitico (l’orizzonte teorico dell’ultimo Ricoeur), finiscono col mostrare in filigrana quale sia per il filosofo il tratto più proprio del pensiero freudiano.

Per quanto sia «difficile essere uomini», Ricoeur ritiene che per la via di una «estrema obbedienza alla realtà», di una elaborazione dei conflitti, di una rinuncia al ristagno nell’infantilismo, l’esperienza singolare possa interpellare autenticamente se stessa. Nel momento in cui arriva a chiedersi «se il proprio desiderio sia libero o costretto», ogni uomo, al riparo – grazie alle scoperte psicoanalitiche – da risposte prescrittive o normative, ha la possibilità di rivelare a se stesso la propria forza affermativa, la potenza di trasformazione e invenzione che qualifica la straniante «realtà psichica» descritta dallo «sguardo d’aquila» di Freud.