È la fine di Ottobre del 1845 a Blackmountain, nel nord del Donegal, all’alba della Great Famine, la grande carestia irlandese che mieterà migliaia di vite condannandone altrettante alla diaspora. Grace è svegliata di soprassalto dalla madre, che le taglia i capelli e le infila degli abiti maschili, troppo grandi per lei, proprio come il viaggio in cui è chiamata ad imbarcarsi a soli quattordici anni per cercare lavoro.

Non c’è giustizia nel mondo di Grace, il cui nome dà il titolo all’ultimo libro di Paul Lynch (traduzione di Riccardo Duranti, 66thand2nd, pp. 448, € 19,00) romanzo di formazione e sopravvivenza, in cui si racconta la cruda realtà di un’Irlanda che muore di fame, un passato che ancora oggi la tormenta come un fantasma. Grace è in parte anche una storia dove il confine tra vivi e morti si confonde nella mente della protagonista, attraverso la quale Lynch ci obbliga impietoso a osservare la miseria di un popolo che sta perdendo la sua dignità, mentre chi doveva aiutare distoglie lo sguardo: «I morti di fame per strada credono ancora che i soccorsi arriveranno. Ma chi li porterà? Né Dio, né la Corona, né nessun altro in questo paese».

La prosa originalissima e lo sperimentalismo formale di Lynch attingono a piene mani dalla poesia e dal suo passato di critico cinematografico, tanto che le pagine di Grace ricordano un canovaccio dove il regista ha appuntato istruzioni meticolose per la scenografia e gli attori, mappandone movimenti e pensieri. Nessuna morale, invece una oggettività di rappresentazione che di proposito nega ai lettori ogni forma di rassicurante familiarità o psicologismo.
Complice l’uso austero e aggressivo della punteggiatura, che fluidifica la sintassi agli estremi e salda dialoghi e narrazione in terza persona, Grace suscita un effetto di straniamento: esibisce una sorta di prosa poetante che può risultare ipnotica, dal linguaggio melodico e ritmato, che in originale si arricchisce di audaci accostamenti terminologici e inusuali capovolgimenti nella costruzione delle frasi, tipici dell’Irish English e della lingua gaelica. A questo sperimentalismo ormai noto in Irlanda fa fronte una traduzione italiana che deve confrontarsi con numerosi vuoti referenziali e l’assenza di strumenti rappresentativi adeguati: così, la resa della polifonia testuale non nasconde le difficoltà intrinseche al tradurre uno stile accattivante.

Chi seguirà Grace nel suo viaggio, dovrà avventurarsi su sentieri tutt’altro che agevoli; ma abbandonandosi a questo cammino si imbatterà nelle tracce di quel tragico passato irlandese che ancora infesta il presente e non si lascia dimenticare.