C’è un termine che dalla descrizione dell’ambiente naturale ha finito per definire i contorni e l’identità stessa di una terra e, almeno in parte, dei popoli che la abitano. Si tratta di bush che raccontando degli arbusti scossi dal vento e dei vasti tratti di deserto che caratterizzano l’interno dell’Australia, si è trasformato in una sorta di sinonimo dell’entroterra della vasta isola-continente e di ciò che rappresenta in termini di wilderness in contrapposizione alla cultura urbana cresciuta sulle coste fin dalla prima colonizzazione britannica della fine del ’700. Nella storia australiana, bush è però anche sinonimo di conquista, di violenza, narra del cuore di tenebra del processo di costruzione nazionale che si è realizzato sulla pelle degli aborigeni. Una tragica epopea, che evoca implicitamente quella della frontiera americana, che Paul Howarth, giovane autore inglese che ha vissuto a lungo in Australia, ha posto al centro del suo esordio narrativo, Solo ladri e assassini (HarperCollins, pp. 448, euro 19) che intreccia romanzo di formazione, western e noir. Nella storia, ambientata alla fine dell’800 e ispirata alle gesta della polizia nativa del Queensland, responsabile di ogni sorta di violenza contro la popolazione indigena, una modesta famiglia di allevatori, i McBride, e in particolare due giovani fratelli, Billy e Tommy, dovranno misurarsi con le mire di un ricco proprietario terriero, la corruzione della autorità e il razzismo di cui è imbevuta la comunità dei coloni bianchi, finendo per intraprendere un pericoloso viaggio attraverso il bush alla ricerca della verità e di una consapevolezza che potrà forse liberarli dall’orrore che li circonda.

Lo scrittore Paul Howarth

Il suo romanzo racconta una storia tragica che sembra racchiudere l’intera epopea selvaggia da cui è sorta l’Australia moderna. Come è nato?
Sono arrivato nel Paese nel 2008, poco dopo che il Primo ministro dell’epoca si era scusato ufficialmente – per la prima volta nella storia nazionale – con gli aborigeni per le ingiustizie che hanno subito. All’epoca sapevo poco del ruolo che il colonialismo britannico aveva svolto nella formazione della terra che ora chiamavo casa. Così ho iniziato a documentarmi, affascinato dallo scoprire una realtà che non conoscevo, ma anche con crescente orrore perché si trattava di fatti terribili e di vicende che erano state trascurate se non rimosse del tutto malgrado la loro eredità fosse ancora evidente nella vita quotidiana degli australiani. Come scrittore ero stato anche colpito dal fatto che tutto ciò aveva avuto luogo in un «Wild West» alternativo rispetto a quello americano che conosciamo tutti. Perciò, quando mi sono imbattuto nelle vicende della polizia nativa del Queensland, una sorta di squadra della morte autorizzata dallo Stato ma poi scomparsa dai libri di storia, ho capito che avevo trovato la chiave per il romanzo.

Come accadeva sulla «frontiera» americana, le gesta di questo corpo di polizia si inserivano in un contesto dove la legge era esercitata in modo arbitrario dai coloni bianchi che stavano mettendo le mani su quel vasto Paese eliminando i nativi. Come andarono davvero le cose?
Più o meno come ha sintetizzato nella domanda. Uno degli aspetti che mi ha colpito di più di quel periodo è l’apparente contrasto tra le regole relative alla proprietà che il governo applicava nelle città, per lo più sulla costa, e la brutale illegalità che regnava nell’entroterra. Un paradosso la cui eco risuona ancora oggi. La polizia nativa non era una banda di fuorilegge, bensì un corpo ufficiale finanziato e dotato di un proprio regolamento che si muoveva alla luce del giorno. Tuttavia il fatto che operasse nel bush, oltre alla compiacenza delle autorità locali, fecero sì che nessuno controllasse davvero le azioni di questi agenti. Fintanto che le loro vere attività venivano tenute nascoste (ad esempio parlando di «dispersione» invece che di «massacro» dei nativi nei rapporti ufficiali), tutti potevano continuare a guardare da un’altra parte. Il che ha alimentato anche l’atteggiamento violento dei coloni: erano convinti che la terra che avevano preso fosse loro e con l’aiuto della polizia potevano agire impunemente, usando la forza come volevano.

La polizia nativa ispeziona il territorio

La vicenda di Tommy e Billy, i due giovani protagonisti, evoca il romanzo di formazione e descrive, specie nel primo caso, la crescente consapevolezza della realtà ingiusta e razzista nella quale vive il giovane. Davvero un ragazzo cresciuto alla fine dell’800 in una fattoria del Queensland poteva pensarla così?
La documentazione storica mostra che, nonostante tutto, all’epoca c’erano molti coloni bianchi che protestavano per il trattamento subito dai nativi, sebbene perlopiù si trattasse di persone istruite che vivevano nelle città della costa. Tuttavia, anche nel bush ci devono essere state persone che reagivano in qualche modo ai massacri che venivano perpetrati. Ma cosa potevano fare? Come hanno potuto continuare a costruirsi una vita con una salda bussola morale in un contesto che evidentemente non ne aveva alcuna? Nel libro, il padre dei ragazzi tenta semplicemente di ignorare la violenza che si compie intorno a lui, ma alla fine si ritrova lo stesso coinvolto. In una situazione del genere è impossibile non schierarsi: devi scegliere da che parte stare. Ed è ciò che Tommy e Billy sono costretti a fare. Sono nati in un mondo in cui la violenza è normale, prevista, quasi una necessità per la sopravvivenza. Eppure faranno scelte diverse.

Si potrebbe pensare che ancor più della legge ingiusta degli uomini sia la natura indomita a determinare in qualche modo gli eventi descritti nel romanzo, il carattere degli individui, il loro stesso destino.
Assolutamente: il panorama dell’entroterra australiano è stato l’altro aspetto determinante all’origine di questo libro. È sia magnifico che brutale, incredibilmente cinematografico e riflette perfettamente il viaggio che i fratelli intraprendono. Volevo ambientare una storia in questo contesto naturale e usare il paesaggio come personaggio a sé stante, indifferente alle azioni degli uomini. Da queste parti, si tratti di una tempesta di sabbia, della siccità o del monsone, il grande mondo continua a girare e la natura prevarrà sempre sugli esseri umani.

Nel recensire il suo libro, il «Guardian» ha citato «Meridiano di sangue» di Cormac McCarthy e il film «La proposta» scritto da Nick Cave. Voleva svelare un mistero e fare luce su un contesto storico poco esplorato, ma anche cimentarsi con il cosiddetto «kangaroo western»?
Quelle citate sono opere fantastiche, ma credo di aver seguito un’altra impostazione. La traiettoria della storia che racconto muove da una certa dose di inevitabilità e il mistero che ne è al centro contribuisce a scandire il ritmo del racconto. Ma dal mio punto di vista ciò che conta di più è il viaggio che Tommy compie, il fatto che ne faccia un percorso verso una verità che magari il lettore potrebbe aver già individuato, ma che a lui servirà conoscere per diventare un uomo.

La tradizionale proprietà aborigena della terra è stata riconosciuta solo negli ultimi decenni e, secondo il giornalista australiano Jeff Sparrow, il Paese si sta comportando ora in modo altrettanto duro con gli immigrati. Lei ha vissuto sei anni in Australia e possiede la doppia cittadinanza, qual è oggi in quella società l’eredità del razzismo e della violenza che ha raccontato nel romanzo?
C’è stato qualche timido segnale in direzione di quella che a volte viene definita come «riconciliazione» – il riconoscimento della proprietà della terra indigena è uno di questi -, ma penso che ci sia ancora molta strada da fare, sia sul piano concreto che della cultura perché l’Australia possa dire che sta facendo i conti fino in fondo con le ombre del proprio passato. Peraltro, per un Paese la cui identità moderna si è costruita quasi interamente sulle spalle degli immigrati, esiste ancora una relazione piuttosto strana e piena di problemi con l’immigrazione nel suo insieme e con cosa significhi essere australiani nel Ventunesimo secolo.