Gunnar è disperato. La scelta di sua madre di trasferire l’intera famiglia dal quartiere middle-class di Santa Monica al ghetto nero di Hillside, Los Angeles, lo ha sconvolto. Per lui, cresciuto in mezzo a coetanei bianchi, si tratta di cimentarsi con una realtà sconosciuta e minacciosa. Anche se con il tempo saprà volgere a suo favore quella novità, fino a trasformarsi in un simbolo di quel nuovo mondo che tanto lo aveva intimorito.

Dopo l’affermazione internazionale arrivata grazie a Lo schiavista e Slumberland, esce finalmente nel nostro paese anche Il blues del ragazzo bianco (pp. 335, euro 18,59), pubblicato come i precedenti da Fazi, romanzo con cui nel 1996 Paul Beatty inaugurò la sua bizzarra indagine sull’identità afroamericana che stravolgendo con ironia, luoghi comuni e costruzioni narrative consolidate ne ha fatto uno dei protagonisti della letteratura statunitense. Il libro sarà presentato oggi a Più libri più liberi (Sala Sirio, ore 16), dall’autore e da Nicola Lagioia.

Quasi vent’anni separano «Il blues del ragazzo bianco» da «Lo Schiavista». Eppure c’è un filo narrativo e tematico che lega tutte le sue opere. Dove porta la sua riflessione sull’identità nera?

Una volta, a Londra, una persona mi disse di aver amato particolarmente la scena del libro in cui Gunnar sta per recarsi a casa della famiglia di un amico bianco e un altro suo amico, nero in questo caso, gli dice: «Resta nero, negro!». «Che cazzo significa?», chiede il ragazzo e l’altro gli risponde: «Significa essere te stesso». E qualcosa del genere si ritrova anche nello Schiavista, in particolare in uno spettacolo comico durante il quale un attore rimprovera una coppia bianca presente nel pubblico, dicendo: «Questa è roba nostra!». E il protagonista vorrebbe alzarsi e chiedere: «Ma cos’è esattamente questa roba nostra?». Anche se poi non lo farà. Il punto è che molte persone si ripetono di continuo «sii te stesso», come se questo significasse davvero qualcosa. Così, da un libro all’altro, credo di aver sviluppato invece sempre più nitidamente la mia riflessione sul ruolo della responsabilità individuale e delle scelte di ciascuno rispetto ad ogni forma di identità.

Il «blues» di Gunnar si riassume nella difficoltà ad aderire agli stereotipi culturali in genere attribuiti agli afroamericani. Disperato, chiede al «dio della negritudine» di farlo diventare abbastanza nero. Perché non si sente a casa a Hillside?

In realtà per la stessa ragione per cui quasi chiunque soffre o fatica a sentirsi a proprio agio in un contesto che non gli è famigliare. In questo, la sua condizione personale ci interroga, cosa significa sentirsi parte di un gruppo, di una comunità? Mi viene in mente un film di Pasolini in cui quest’ultimo intervista un gruppo di giovani vestiti allo stesso modo, con lo stesso taglio di capelli e che ascoltano la stessa musica. Eppure, quando lui gli chiede se si sentano parte di un gruppo, rispondono quasi tutti in questi termini: «No, perché non sono come tutti gli altri. Non sento fino in fondo che questo è il mio posto».

Nell’esperienza scolastica del protagonista emerge la contraddizione tra «il multiculturalismo in classe», dove si insegna il rispetto per le differenze, e quello «in cortile», dove si diventa popolari grazie alle facili battute razziste. Una metafora nemmeno tanto velata della società americana?

Per certi versi si, anche se si deve dire che si tratta di una realtà contraddittoria. Prendiamo ad esempio il termine «integrazione» spesso utilizzato a proposito di questi temi. Ricordo ancora che al liceo avevo un docente di educazione civica, il professor Cooper, che oltre ad essere un vero stronzo era anche un autentico razzista. Non sopportava la presenza di studenti provenienti da altri quartieri, che erano per lo più neri e amava ripetere: «Non si può forzare l’integrazione.

Coloro che lo vogliono davvero, alla fine si integreranno». Ancora oggi mi interrogo su quella frase. Nel senso che da un lato noi non sappiamo se l’integrazione sia o meno una condizione naturale, ma, dall’altro, parole come quelle del mio insegnante rappresentano la classica giustificazione per l’inerzia delle autorità nel varare misure concrete contro le discriminazioni.

Nelle sue opere emerge un certo gusto per il paradosso, ma come si sente quando tali elementi prendono il sopravvento sulla realtà, come per l’elezione di Trump?

In realtà credo sia fuorviante contrapporre la presunta oggettività del reale con le bizzarrie dell’arte. L’arte è la realtà, l’assurdo è reale. E quale occasione migliore per confermare tutto ciò della vittoria di un personaggio come Trump? Il punto è che c’è da chiedersi cosa ci sia di veramente nuovo in lui: non si tratta forse del volto più truce e discriminatorio di un paese che da questo punto di vista ha una lunga tradizione? Il problema è che la xenofobia e la paura fanno ulteriori progressi e il loro successo si basa spesso sul fatto che le persone – questo sì apparentemente assurdo – votano contro i loro stessi interessi: più del 40% delle donne e l’8% dei neri hanno votato per Trump.

Lei fu molto tiepido di fronte al «fenomeno» Obama, ora però non le sembra che vivere negli Stati Uniti si sia fatto più difficile?

Semplicemente non ho mai creduto alla formula del «postrazziale», all’idea che bastasse avere un nero alla Casa Bianca perché il razzismo sparisse come per magia. E infatti, malgrado Obama, c’è stata una lunga serie di violenze poliziesche contro i giovani neri, con morti e feriti. Certo, i miei studenti alla Columbia, che hanno intorno ai vent’anni e sono perciò cresciuti con ciò che Obama aveva rappresentato, dopo la vittoria di Trump erano sconvolti, inconsolabili, non riuscivano a crederci.

Per quanto mi riguarda, forse nel mio paese non mi sono mai sentito davvero accettato e quindi ora, malgrado sia evidentemente preoccupato, non mi sento poi così ferito. Non sono un patriota. Gli Stati Uniti sono il posto in cui vivo, casa mia, ma niente di più.