Gli Usa pronti a «intervenire militarmente» in difesa di Taiwan, se attaccata dalla Cina. Sarà la sua proverbiale inclinazione ai passi falsi. O sarà la vecchiaia, come spesso lo stuzzica il suo coetaneo Trump. Forse, più semplicemente, si tratta della sperimentata tecnica di spararla grossa per poi affidare all’ufficio stampa il compito di stemperare, smussare, spiegare.

No, la linea della politica americana nei confronti di Pechino – “One China” – non è cambiata. L’obiettivo, alla fine, è lanciare all’interlocutore/avversario il messaggio che si desidera fargli pervenire, anche se successivamente depotenziato dagli assistenti. Astuzie da politico stagionato a cui Joe Biden fa spesso ricorso. Troppo spesso, lasciando così intravvedere un disegno di politica internazionale non ben definito, se non confuso, dettato soprattutto dall’esigenza di prendere le distanze – se di progetto si trattava – da quello del suo predecessore e, probabilmente, di nuovo suo sfidante nelle prossime presidenziali.

SE SULLA MISSIONE di Joe Biden in Asia domina la sua affermazione muscolare su Taiwan, con il prevedibile carico di reazioni irritate delle autorità cinesi, il suo obiettivo principale è la costruzione di un “blocco” economico asiatico-pacifico, una sorta di mercato comune con la partecipazione di tredici nazioni, con gli Usa in posizione centrale.

In parte è la riedizione della Trans-Pacific Partnership (TPP) avviata da Barack Obama, che Donald Trump cancellò nel corso della prima settimana della sua presidenza, per concentrare il grosso della sua politica nella regione in un dialogo velleitario con la Corea del nord, in chiave anticinese.

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Biden non immagina tuttavia una continuità con il TPP, al quale pure lavorò come vice di Obama, per il semplice fatto che fu molto contestato sia negli Usa e nel Partito democratico sia tra i partner asiatici. Resta lo stesso obiettivo, che è quello di strutturare una forte presenza politica americana nella regione asiatico-pacifica, incentrata sul commercio, con una dichiarata aspirazione a contrapporsi alla superpotenza cinese nella sua stessa area di influenza e di proiezione.

L’avvertimento pesante su Taiwan – quindi non una frase “scappata” ma voluta – sottolinea che l’operazione è sì di carattere economico ma è sostenuta da una forza militare operativa che la Cina non possiede.

È la medesima “tecnica” usata nei confronti della Federazione Russa, con l’escalation degli improperi rivolti a Putin stesso, anche se le forze militari americane non sono formalmente presenti sul terreno e se, ai massimi livelli militari, il titolare della difesa Austin parla con il omologo Shoigu e il generale Milley con il suo omologo Gerasimov, due fatti enormi, curiosamente sottovalutati dai media.

IN ENTRAMBI I TEATRI, quello cinese e quello russo, Biden si muove volendo dare l’impressione – proprio con le sue minacce che possono perfino sembrare gaffe – di potersi concedere il lusso di fare il bullo. Perché dispone d’informazioni specifiche sulla situazione ai vertici sia di Mosca sia di Pechino, secondo le quali le leadership di Putin e di Xi sono vulnerabili? Così si dice a Washington. Delle difficoltà di Putin si sa, meno di quelle di Xi, che sono considerevoli. Il controllo della Cina, sotto attacco di Covid, si rivela sempre più problematico, con una repressione che sembra riportare il paese ai tempi della rivoluzione culturale (intesa non nella sua accezione e portata “rivoluzionaria” ma piuttosto nelle sue manifestazioni duramente repressive).

BIDEN VEDE DUNQUE in questo momento due finestre di opportunità per l’America, per ridisegnare il mondo a suo favore, occasioni impensabili al momento del suo insediamento alla Casa bianca. Sembra un’epoca remota quando, due anni fa, a Davos – ricorda l’agenzia Bloomberg – un terzo dei partecipanti miliardari erano tycoon russi e “feste a base vodka e caviale sponsorizzate dai russi erano note per la partecipazione di gruppi di giovani senza accredito fatte passare per traduttrici”. Quest’anno l’ospite d’onore del Forum è Volodymir Zelenskyy.

Il fatto è che lo stesso Biden è in una condizione non troppo dissimile da quella di Putin e Xi per poter davvero approfittare della loro debolezza. A parte i sondaggi drammatici, lo stesso varo dell’Indo-Pacific Economic Framework (Ipef), l’intesa annunciata in questi giorni con i paesi asiatici e pacifici, presenta una serie notevole di complessità d’attuazione e di ostacoli, il primo dei quali riguarda la natura stessa dell’operazione.

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I PARTNER VORREBBERO maggiore accesso nel mercato americano, ma questo non piace agli elettori di Biden, non solo a quelli di Trump. Inoltre gli asiatici sono contrari a una sua configurazione in chiave anticinese. «Non desideriamo vedere l’Ipef come meramente uno strumento per contenere altri paesi», ha detto al NYT il ministro indonesiano Lufti. Nei confronti della Cina, d’altra parte, sono gli stessi Usa a tenere un atteggiamento a dir poco ambivalente, se Biden, a Tokyo, ha confidato di voler rimuovere alcune tariffe imposte da Trump a beni cinesi, che, secondo il segretario al tesoro Janet Yellen, fanno più male che bene ai consumatori e alle imprese americane.

E sì, Biden, Putin, Xi, i loro destini sono più interdipendenti di quanto ciascuno di loro vorrebbe ammettere e simili tra loro rispetto alla reale possibilità per ognuno di lucrare sulla disgrazia degli altri due.