Non c’è stagione del secondo Novecento che non sia stata oggetto di un breve o lungo revival. È successo per gli anni cinquanta, per i sessanta (gli anni di gioventù, eternamente familiari, dei nostri padri e madri), per i settanta. È accaduto e accade perfino per gli ottanta. Ma la nostalgia per gli «anni del riflusso» è diversa: se rimpiangere o anche solo rievocare i decenni precedenti appare culturalmente legittimo e socialmente accettabile, il revival degli anni ottanta somiglia a un ritorno del represso, liberatorio e imbarazzante in parti uguali. Non solo: mentre la celebrazione degli anni sessanta o settanta è un rito collettivo, regredire agli ottanta è una pratica individuale, perché è difficile trarne le risorse per la costruzione civile del presente. Con gli anni ottanta non si diventa adulti, ma si resta confinati in un colorato campo da gioco, spaziando all’infinito ma senza meta. Eppure quella pista chiusa può sembrare lo spazio più vitale e libero che mai sia capitato di percorrere.

Questa contraddizione, o tensione, è il tema del libro di Gabriele Pedullà, Lame (Einaudi, pp. 160, euro  18,00, che esce a otto anni dalla sua raccolta di racconti, Lo spagnolo senza sforzo. I protagonisti, Ruggiero e Olimpia (due nomi cavallereschi, appropriati per raccontare «la piccola epica» degli innamoramenti, l’erranza, la prigione dell’incanto), sono sposati e non hanno figli, o almeno «non ancora, e pure per questo esitavano a darsi una risposta». Ruggiero, sulla soglia dei quaranta, ha un lavoro «finto remunerativo»; Olimpia, di qualche anno più giovane, ne ha uno «finto creativo». Hanno scoperto che al Pincio, tutte le domeniche e i venerdì sera, un gruppo di smaliziati pattinatori si riunisce su una pista, esibendosi in coreografie (come quella di Thriller di Michael Jackson) e sfoggiando un abbigliamento anni ottanta: «A guardarli da lontano, avresti detto infatti che almeno un terzo dei presenti era sbarcato direttamente da una festa del 1988 o 1989. – “Ci crederesti? Sono i jeans che ho acquistato l’ultimo anno del liceo”».

Olimpia e Ruggiero, attratti da quel rito che si rivela «l’antidoto perfetto contro lo stress della settimana», diventano dapprima spettatori del proprio passato, che vedono rivivere per delega. Entrambi infatti pattinavano nell’adolescenza (come molti coetanei: pochi negli anni ottanta gli svaghi più emblematici, o addirittura iconici, del pattinaggio), ma hanno smesso da tempo e stentano a rimettersi le rotelle ai piedi. Sulle prime, sono appagati da quella simulazione di esperienza, mediata dall’obiettivo fotografico di Olimpia («Se non lo fotografi, non è successo»), che subito condivide gli scatti su Facebook.

Il Pincio diventa così un’alternativa all’esistenza, il simbolo di un desiderio che si vuole estinguere accorciando i tempi della mancanza: quella che provano Olimpia e Ruggiero non è più infatti nostalgia del passato, ma nostalgia del presente, rappresentato mentre lo si vive. O perfino nostalgia del futuro, da coltivare tra le «tinte chiare del salotto», quando i protagonisti, osservando le foto che si rincorrono nelle cornici elettroniche, immaginano «più facilmente la grande famiglia patriarcale che un giorno formeranno insieme» e esorcizzano così la «paura di invecchiare». La scrittura tiene dietro a questa tensione spassionata, gestita da una voce esterna che ricorre volentieri al discorso indiretto libero senza per questo togliere la sordina, senza lasciare che le passioni dei personaggi fluiscano nell’espressione.

Ma c’è qualcosa che fa attrito, presentandosi a intervalli regolari sotto forma di dialoghi incompiuti. Non sono i due protagonisti che parlano tra di loro, né con altri personaggi: gli intermezzi sono i frammenti del soliloquio di Ruggiero visitato dal «fantasma dei suoi quarant’anni». In quei frammenti emerge l’elaborazione del desiderio, destinato ad alterare la routine domenicale del Pincio.
La traiettoria di Ruggiero incrocerà quella di un’altra pattinatrice, Angie (il cui vero nome – ancora un’eco cavalleresca – è Angelica). Eppure, anche se incrinato, l’ordine delle cose non muta: come nell’epica, anche qui non c’è formazione né catastrofe. Ruggiero si protegge con la corazza dei suoi orari quotidiani, del suo perfetto tempismo. Non potrà salvarsi da tutto, ma così almeno le cadute saranno attutite dalla previsione: «Quando tra qualche tempo una lettera giungerà, quando tutto sarà finito Ruggiero può dire in anticipo che rimpiangerà anzitutto il rettangolo riservato alla sua auto».
Il pattinaggio, quello «sforzo inutile e senza direzione», paralizzante nel suo «illusorio dinamismo», si chiarisce allora come metafora esistenziale e correlativo di una forma narrativa più epica (perché senza vero sviluppo e determinazione temporale) che romanzesca.

Che in questa metafora, e nella sua rappresentazione, ci sia l’ambizione di raccontare una condizione non solo individuale lo esplicita il paratesto, cioè il risvolto di copertina in cui si legge il brano di una lettera dell’autore all’editore: «Ecco, non saprei come altrimenti dirlo, ma in quel pomeriggio al Golden Gate Park (a San Francisco, dove l’autore ha assistito alle performance di una compagnia di pattinatori dilettanti] per un paio d’ore ho avuto l’impressione di vedere qualcosa come lo Spirito-del-nostro-tempo che si incarnava in una singola, concretissima figura. Lì, improvvisamente, c’era il meglio e il peggio di tutto noi».