Il compleanno del 1967, il ventunesimo, fu il primo che Patti Smith passò insieme a Robert Mapplethorpe. Si erano incontrati pochi mesi prima, nell’estate in cui morì John Coltrane, i Doors cantavano Crystal Ship, Jimi Hendrix dava fuoco alla chitarra a Monterey e nelle città americane esplodevano le rivolte. Robert mise sul giradischi Phantasmagoria in Two di Tim Buckley, si inginocchiò e le diede un libricino sui tarocchi che aveva foderato di seta nera. Su una pagina aveva scritto versi che li raffiguravano come la zingara e il matto: «L’una creava il silenzio, l’altro ascoltava quel silenzio con attenzione. Nel turbinio fragoroso delle nostre vite, quei ruoli si sarebbero invertiti parecchie volte», ricorda Patti Smith in Just Kids, il memoir che racconta i loro anni di apprendistato artistico, amore e accudimento reciproci a New York.

DUE ANNI DOPO, con i Sessanta ormai agli sgoccioli, per il ventitreesimo compleanno Mapplethorpe le costruì un appendi cravatte con l’immagine della Vergine Maria. All’inizio di novembre, Patti gli aveva regalato sette teschi d’argento attaccati a una stringa di pelle. «Lui indossava i teschi, io la cravatta. Ci sentivamo pronti per i Settanta. “È il nostro decennio”, disse lui».
Mapplethorpe aveva ragione, anche se a quei tempi erano troppo poveri perfino per comprare cibo sufficiente a sfamarsi. Smezzavano tutto, i sandwich al formaggio e le visite ai musei: uno rimaneva fuori, l’altro entrava e poi raccontava la visita. Dopo aver aspettato Patti davanti al Whitney, tornando a casa Robert le disse: «Un giorno entreremo insieme e le opere esposte saranno le nostre». Oggi il Whitney possiede una ventina di fotografie di Mapplethorpe, tra cui il ritratto di Patti sulla copertina di Horses.
Quella foto in bianco e nero di una giovane donna filiforme e androgina, lo sguardo serio che fissa l’obiettivo, annunciava al mondo l’arrivo di una rivoluzionaria. All’epoca nessuna era come lei. Non era una cantante blues, non era Janis Joplin, non era Grace Slick, era la leader del gruppo che portava il suo nome. La sua austerità ascetica era la singolare sintesi tra l’emulazione di Baudelaire e la strafottenza di Frank Sinatra. Del resto i riferimenti culturali di Smith sono sempre stati prevalentemente maschili: Rimbaud, Genet, Mishima e l’occasionale Frida Kahlo. Gregory Corso, Allen Ginsberg e William Burroughs furono i suoi insegnanti all’università del Chelsea Hotel, scrive in Just Kids, e a quanto racconta la sua carriera artistica subì un’accelerazione grazie a un taglio di capelli alla Keith Richards.

QUANDO la rivoluzionaria comincia a cantare dai solchi di quel vinile, la prima parola che pronuncia è «Jesus», ma non è quello che sembra. Gloria, è una dichiarazione di indipendenza, la rivendicazione del diritto a commettere errori e a fare le proprie scelte: introduce un nuovo tipo di artista sulla scena del rock & roll, una che non si fa dare una sistemata da nessuno (concetto ribadito con l’ascella non depilata di Easter due anni dopo, né Baudelaire né Frank Sinatra). Fin da allora Patti Smith è rimasta una presenza feconda, anche nei lunghi anni in cui ha lasciato la musica per fare la madre di famiglia, e la sua rilevanza prosegue ai nostri giorni, a differenza di coetanei come John Paul Jones, David Gilmour o Eric Clapton, che da decenni non hanno più niente da dire e vivono del loro passato.
I settantacinque anni di Patti Smith scandiscono la nostra età in modo diverso dagli ottanta di Bob Dylan o di Paul McCartney proprio per la sua straordinaria diversità e la rivoluzione che portò con sé, e per il nostro modo di relazionarci a lei. Anche se non pubblica un disco da quasi dieci anni (Banga è del 2012), continua a scrivere libri (L’Anno della Scimmia, è del 2019) e a fare concerti.

PATTI SMITH è un modello attuale perché è un’artigiana. Chi la segue su Instagram sa che scrive tutti i giorni davanti a una tazza di caffè nei suoi locali preferiti, a New York come a Parigi. Quaderno giapponese e penna, Patti scrive a mano per il piacere e la necessità di svolgere il proprio lavoro, adempiere la propria vocazione, giorno dopo giorno fino alla fine dei giorni, e dare un senso all’esistenza.
Patti Smith è rilevante perché incarna l’emancipazione: i solchi di Horses sono stati il rito di fondazione di molte propaggini musicali. Michael Stipe dei R.e.m. e Viv Albertine delle Slits corsero a comprarlo il giorno stesso in cui uscì. Michael era un adolescente bullizzato che ebbe un’epifania ascoltando Birdland. Viv aveva capito dai 45 giri dei Beatles che la musica è una via di fuga da un’esistenza di squallore, un ponte verso un’altra vita. Solo che lei essendo femmina non sapeva nemmeno come salirci su quel ponte. Non c’erano modelli di riferimento, nessuna a cui guardare. «Non ho mai visto una ragazza come lei. È il ritratto della mia anima, è tutte le cose che nascondo dentro di me e che non riescono a uscire (…) Mi dà una sicurezza che mi incoraggia a esprimermi a modo mio», scrive nell’autobiografia Vestiti Musica Ragazzi.

NEL 2021 Patti Smith non è cambiata: indossa abiti-divisa monacali, si divide tra la casa al Greenwich Village, dove vive con Cairo, il gatto abissino di vent’anni, e il rifugio a Rockaway Beach con uno scampolo di giardino incolto. Si giustifica per aver prestato il volto alla pubblicità di una valigia, avvolge in un tovagliolo di carta i mirtilli che non ha finito di mangiare nel caffè dove fa colazione, se li mette in tasca, li dimentica e li ritrova il giorno dopo, ancora commestibili. Per prudenza ha rimandato i concerti previsti nel mese di dicembre, tra cui quello del 30 al Capitol Theater in onore dei suoi settantacinque anni, spostato al 24 febbraio.
È delusa, perché non vedeva l’ora di festeggiare insieme al pubblico, ma dice: «A febbraio avrò ancora settantacinque anni, che di per sé è un bel traguardo». Il 27 dicembre il sindaco uscente di New York, Bill de Blasio, le ha dato le chiavi della città. «Vorrei poter dare le chiavi di me stessa a New York», ha detto, e poi ha soffiato sulla candelina di un cupcake di compleanno.