Sapremo oggi se tornerà libero Patrick Zaki, lo studente egiziano e cittadino onorario italiano che viveva e studiava a Bologna prima di essere arrestato al Cairo il 7 febbraio 2020. Tra pochi giorni, il 16 giugno, compirà 30 anni, ma rischia di passare il suo compleanno nella fetida prigione di Tora se il tribunale cairota che ieri ha celebrato l’ennesima udienza sul rinnovo della custodia cautelare deciderà di prorogarla ancora una volta per altri 45 giorni, perseguito dal regime di Al-Sisi con l’accusa di propaganda sovversiva su internet. Ieri, «come di consueto, un diplomatico italiano ha tentato di entrare in tribunale per assistere all’udienza, ma stavolta non gli è stato concesso. Lo hanno lasciato fuori», ci racconta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia, l’associazione che ha legato il suo 60° anniversario proprio al compleanno dello studente italo-egiziano.

Il caso Zaki è inserito nel programma di «trial monitoring» dell’Ue. A cosa serve?

Nelle intenzioni dovrebbe mandare alla giustizia egiziana il segnale che queste udienze sono oggetto di preoccupazione internazionale. Il punto è che per 16 mesi ci si è limitati a questo: ad inviare a turno uno o più rappresentanti delle ambasciate europee, a volte anche degli Usa e del Canada, ad aspettare che rientrino in ambasciata – sempre che riescano ad assistere al processo -, prendere atto della decisione del giudice e attendere l’udienza successiva che si svolgerà un mese e mezzo dopo. In questo modo non si arriverà a nulla, e anzi si dà una parvenza di legittimità a tutta questa procedura che è completamente irregolare.

L’Italia non sta agendo come dovrebbe?

No, se l’Italia non eserciterà pressioni serie, nessuna autorità egiziana ordinerà mai di aprire la porta della cella di Patrick. Al governo glielo abbiamo chiesto noi e glielo ha chiesto il parlamento, il 14 aprile scorso. Ma nulla si è mosso, al di là di qualche dichiarazione di circostanza o, peggio, dell’invito al silenzio da parte del ministro Di Maio , come se si trattasse di un ostaggio nelle mani di un gruppo di rapitori.

Perché secondo lei questo accanimento dell’Egitto malgrado il grande risalto mediatico?

Non si può parlare di accanimento perché quella di Patrick è una storia comune a migliaia di altri egiziani senza diritti.

Ma sfortunatamente gli altri sono nell’ombra, mentre Patrick ha il sostegno dell’opinione pubblica.

Credo che l’unico modo per incidere sulle sorti dei detenuti egiziani sia un’azione politica seria, quella che è mancata nonostante una mobilitazione incredibile della società civile italiana o gli appelli di personalità e artisti (come Adriano Celentano che ha scritto a Draghi, ndr). Ma purtroppo da sola non basta. In Egitto non si commuovono certo per la solidarietà espressa a Zaki. O ad Ahmed Samir, ricercatore a Vienna accusato di terrorismo che da oggi (ieri, ndr) è a processo ma senza che i suoi difensori abbiano nemmeno potuto visionare il fascicolo. La prossima udienza si terrà l’8 giugno. Ma quando nell’ultima relazione sul commercio di armi italiane l’Egitto è il primo Paese, e quando quattro giorni prima del voto del parlamento sulla cittadinanza onoraria a Zaki, l’Italia invia la seconda fregata militare all’Egitto, allora al Cairo capiscono che su questi temi c’è disinteresse.

La sorella Marise ha riferito che Patrick è molto provato nel corpo e nella mente. Voi avete altre notizie?

Sappiamo che rischia di contrarre il Covid, se pure non lo ha già preso, perché è asmatico. Dorme per terra in una prigione durissima e ha un rimpianto continuo della sua Bologna. L’unica cosa positiva è che per la prima volta da mesi ha rivolto il suo pensiero al futuro, quando ai familiari ha detto di aver scritto una lettera alla senatrice Liliana Segre ma di non avergliela spedita perché vuole consegnargliela di persona. È un segnale che un po’ ci rincuora.