«Ancora altri 45 giorni per Patrick in prigione. Niente di nuovo». Così domenica la pagina Facebook «Patrick Libero» dava notizia dell’esito dell’ennesima udienza del giovane studente egiziano di fronte al Tribunale penale del Cairo: si allunga ancora, di un mese e mezzo, la custodia cautelare.

«Nei 9 mesi di detenzione di Patrick Zaki, gli avvocati hanno presentato le prove della falsificazione del suo verbale di sequestro, la mancanza di obiettività e serietà delle accuse e l’illegalità della sua continua detenzione preventiva, dimostrandone più di una volta la nullità. Ma ogni volta la detenzione viene rinnovata senza alcuna base legale, rendendo la detenzione preventiva una punizione in sé e per sé».

Nessuna indicazione, aggiungono gli attivisti, che «sia stata condotta una seria indagine. Né il tribunale né l’accusa hanno presentato alcuna motivazione per la loro decisione».

Eppure la prigionia con l’accusa di terrorismo continua, accompagnata da qualche giorno da quella di tre membri della ong con cui Zaki collaborava, l’Eipr. Ieri diplomatici europei si sono ritrovati fuori dalla Procura per la sicurezza dello Stato, durante l’udienza per i tre (tra cui il direttore Gasser Abdel Razek, di cui ieri Eipr denunciava le terribili condizioni di prigionia, in isolamento), arrestati a seguito di un incontro a inizio novembre con 14 rappresentanti di paesi europei, tra cui l’Italia.

Nelle stesse ore veniva reso noto l’inserimento di 28 egiziani nella lista nera redatta (in modo molto opaco) dal Tribunale penale del Cairo di «entità terroriste» contro cui far pesare cinque anni di restrizioni (divieto di espatrio, congelamento dei conti, confisca del passaporto, tra gli altri).

Tra loro il noto blogger Alaa Abdel Fattah, l’ex candidato alla presidenza Abdelmoneim Aboul Fotouh, entrambi già dietro le sbarre, l’avvocato Mohammed al-Baqer e altri attivisti.

Sempre ieri WeRecord, organizzazione per i diritti umani, che monitora Egitto e Medio Oriente, denunciava casi di violenze nel carcere femminile di Al-Qanater. Le guardie carcerarie avrebbero compiuto aggredito le prigioniere politiche, picchiate e private degli effetti personali fondamentali (cibo, medicine, acqua).

Cinque di loro sarebbero state trasferite insieme a criminali comuni. Già due mesi fa era stato denunciato il divieto di ricevere visite per molte prigioniere politiche, che da tempo vivono in condizioni pessime, sottoposte ad abusi fisici e psicologici, spesso private di cure mediche adeguate.

È in questo contesto che prosegue la battaglia per la verità per Giulio Regeni, vittima di un regime che opera sistematicamente per soffocare qualsiasi voce critica, vera e presunta.

Dopo l’annuncio della Procura di Roma di un prossimo rinvio a giudizio dei cinque sospettati dell’omicidio del ricercatore, oggi alle 14 la Commissione d’inchiesta parlamentare sentirà Matteo Renzi, primo ministro all’epoca della sua uccisione, a inizio 2016.