Va dato merito agli americani di saper valorizzare i loro (scarsi) talenti della moda, passati e presenti. Dal Museum of Art di Philadelphia arriva la bellissima notizia della mostra Patrick Kelly: Runway of Love (27 aprile – 30 novembre), una retrospettiva dedicata all’unico stilista afro-americano che, in pochi anni, ha sconvolto Parigi sovvertendo i canoni statici della moda e gli stereotipi razziali, prima di morire di AIDS a soli 35 anni, il giorno di Capodanno del 1990. Nato a Vicksburg nel Mississippi nel 1954, a 18 anni Kelly è ad Atlanta a vendere abiti riciclati ottenuti da modelli vintage dei grandi sarti europei e si diverte a fare il vetrinista per le boutique di Yves Saint Laurent, gratuitamente.

Poi arriva alla Parson School di New York e, resosi conto che la sua idea di moda non avrebbe preso piede negli Usa già reaganiani, si trasferisce a Parigi nel 1980 e nel 1985 allestisce la sua prima sfilata di abiti femminili che presenta con una sola frase: «Voglio che i miei abiti ti facciano sorridere».

Attacca bottoni colorati ovunque, sulle scollature, sulle cuciture, sulle maniche, sul punto vita. Con i bottoni costruisce cuori applicati, grandi come spille o enormi come corsetti. Li sovrappone ad abiti lunghi, sui jeans, sulle giacche: la critica grida alla rinascita del «Surrealismo à la Schiaparelli», una rivoluzione contro il formalismo dell’edonismo reaganiano, tanto la sua visione è originale. Il suo arrivo sulle passerelle parigine, un po’ anchilosate dalle istanze piccolo borghesi, provoca una tempesta: con il suo glamour mischiato allo street-style, in un solo colpo fa morire l’idea della monumentalità della moda e apre una breccia da cui nasceranno le visioni dei Mugler, Montana, Gaultier. Ma lui è un afro-americano che ama Josephine Baker, Madame Grès e Saint Laurent, si è formato tra ghetti neri e club gay, mischia spille e senso del colore, è esuberante e colto.

Un turbine di creatività che scuote a tal punto l’ambiente che Pierre Bergé, socio e compagno di Saint Laurent, lo finanzia per aprire la sua Maison e la severa Chambre Syndicale des Couturier lo associa, primo americano (e di colore) ad averne l’onore. Il successo gli arriva spinto dalla stampa specializzata e dalle celebrity importanti di quegli anni, tra cui Isabella Rossellini, Grace Jones e, inaspettatamente, la novantenne Bette Davis che fa della sua casa di Neuilly-sue-Seine un centro di propaganda dello stile Kelly.

Movimentatore delle notti parigine, i suoi abiti arrivano nei department stores più influenti, il successo commerciale è pari alla sua notorietà, la banca Warnaco entra nella sua società e già si parla della sua successione al trono di Saint Laurent. Ma l’Aids spegne improvvisamente l’astro di Patrick Kelly e, come una sciagura, quella tempesta si trasforma in una meteora. Peccato che gli stilisti giovani di oggi non sappiano neanche chi sia. Studiandolo, potrebbero imparare come la moda elabora il suo passato, ma non lo copia.

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